Chi ha incastrato Roger Rabbit
1988
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Assistere a Chi ha incastrato Roger Rabbit è come subire una vertigine ontologica mascherata da commedia slapstick. È un'esperienza che scardina le fondamenta percettive dello spettatore, costringendolo a negoziare costantemente i confini tra il tangibile e il disegnato, il cinismo del reale e la fisica anarchica dell'immaginazione. Sotto la superficie di un'indagine poliziesca impeccabilmente orchestrata, Robert Zemeckis non si limita a compiere un miracolo tecnico; egli orchestra un'autopsia culturale della Hollywood del 1947, un requiem per un'era e, al contempo, la più sfolgorante celebrazione della sua stessa mitologia. Il film si presenta come un ibrido mostruoso e sublime, un Giano bifronte che guarda con un occhio alla tradizione del noir chandleriano e con l'altro all'isteria cromatica di un cortometraggio di Tex Avery.
L'incipit stesso è una dichiarazione d'intenti di rara perfidia intellettuale. Non entriamo nel mondo del film attraverso il familiare grigiore di un ufficio da detective privato, ma veniamo catapultati in media res in un cartone animato, "Somethin's Cookin'". È un pezzo di bravura che emula alla perfezione l'estetica e il ritmo della Golden Age dell'animazione: il timing comico è millimetrico, le gag sono sadiche e surreali, la violenza è innocua e rigenerativa. Poi, il brusco "TAGLIA!" del regista. La quarta parete non viene infranta, viene polverizzata. Roger e Baby Herman non sono personaggi, ma attori. Attori-cartoni, una minoranza etnica con le proprie regole, i propri sindacati e la propria enclave geografica, Cartoonia (Toontown). In questa singola, geniale transizione, Zemeckis stabilisce il patto con lo spettatore: tutto ciò che è disegnato non è una fantasia del mondo reale, ma una componente organica, sebbene segregata, di esso.
Questo postulato trasforma la pellicola da semplice esercizio di stile a potente allegoria socio-culturale. Cartoonia è un ghetto vibrante e caotico, un luogo di alterità radicale dove le leggi della fisica sono sospese in favore della logica della gag. I cartoni, i "Toons", sono gli intrattenitori dell'America bianca e umana, amati sullo schermo ma guardati con sospetto e disprezzo nella vita di tutti i giorni. Lavorano per gli umani, li fanno ridere, ma devono usare entrate di servizio e sono percepiti come creature moleste, inaffidabili e iper-emotive. È impossibile non scorgere in questa dinamica un'eco, filtrata attraverso la lente deformante della fantasia, delle tensioni razziali che ribollivano sotto la superficie patinata dell'America post-bellica. L'investigatore Eddie Valiant, interpretato da un Bob Hoskins monumentale nella sua dolente fisicità, incarna questo pregiudizio. Il suo alcolismo e la sua ostilità verso i Toons non nascono da un'astratta xenofobia, ma da un trauma profondamente personale: la morte del fratello e socio, ucciso da un cartone. Valiant è un archetipo del detective hardboiled, un Philip Marlowe caduto in disgrazia, la cui corazza di cinismo si è saldata alla pelle, ma la sua misantropia è specificamente indirizzata verso l'inchiostro e la vernice. La sua redenzione passerà necessariamente attraverso l'accettazione di quell'universo che ritiene responsabile della sua rovina.
Sul versante tecnico, il film rimane, a decenni di distanza, un'opera la cui audacia lascia sbigottiti. Il lavoro del direttore dell'animazione Richard Williams è a dir poco alchemico. A differenza dei tentativi precedenti di mescolare animazione e live-action, qui i personaggi disegnati non sono semplicemente sovrapposti all'immagine; essi esistono nello spazio tridimensionale. Proiettano ombre coerenti con le fonti di luce multiple della scena, i loro riflessi appaiono su superfici bagnate, interagiscono con oggetti di scena reali sollevando polvere e spostando liquidi, e, soprattutto, stabiliscono un contatto visivo credibile con gli attori in carne e ossa. La celebre sequenza in cui Roger fa dondolare una lampada sopra la testa di Valiant, con l'ombra che si muove di conseguenza sul suo volto e sul muro, è un saggio di virtuosismo che trascende la mera esibizione tecnologica per diventare pura narrazione visiva. Zemeckis e Williams costringono il nostro cervello ad accettare l'impossibile, a credere che un coniglio isterico e una bomba parlante con la bombetta condividano lo stesso piano esistenziale di un detective alcolizzato.
Tuttavia, il vero genio del film risiede nella sua profonda comprensione e nel suo amore viscerale per i generi che fa collidere. La trama è un calco perfetto del noir più classico. C'è l'omicidio che dà il via a tutto (quello di Marvin Acme), il magnate corrotto (R.K. Maroon), la femme fatale (Jessica Rabbit) e una cospirazione tentacolare che coinvolge il potere, il denaro e il futuro stesso della città di Los Angeles. Quest'ultimo punto è cruciale. Il piano del giudice Doom – un Christopher Lloyd terrificante, la cui performance è un capolavoro di minaccia repressa che esplode in un body horror degno di Cronenberg – non è una macchinazione astratta. La sua volontà di smantellare il sistema tranviario della Pacific Electric (le "Red Cars") per costruire un'autostrada è una trasposizione romanzesca della "Grande Cospirazione Americana del Tram", una teoria storica secondo cui le compagnie automobilistiche e petrolifere avrebbero deliberatamente sabotato il trasporto pubblico per favorire la cultura dell'automobile privata. Zemeckis trasforma una pagina oscura di urbanistica californiana in un conflitto cosmico: la distruzione di Cartoonia, il regno della fantasia, per far posto al non-luogo per eccellenza, l'autostrada, simbolo di un progresso anonimo e senz'anima. La "Salina" (The Dip), il solvente verde acido creato da Doom, non è semplicemente un'arma; è la critica d'arte fatta strumento di genocidio, la negazione chimica dell'essenza stessa del cartone animato, che è l'immortalità, la capacità di resistere a ogni tipo di violenza fisica per poi rialzarsi. La Salina è la morte ultima, l'oblio.
In questo universo narrativo così denso, Jessica Rabbit emerge come una delle creazioni più complesse e meta-testuali della storia del cinema. È la quintessenza dell'archetipo della femme fatale, un'iperbole visiva di sensualità che sembra uscita da un sogno febbrile di Dashiell Hammett e Frank Frazetta. Eppure, la sua battuta più celebre – "Io non sono cattiva, è che mi disegnano così" – è una folgorante rottura della quarta parete diegetica. È un momento di autocoscienza vertiginoso: un personaggio ammette di essere prigioniero della propria estetica, un costrutto definito dallo sguardo (maschile) del suo creatore e del suo pubblico. Jessica è al contempo l'oggetto del desiderio e una critica vivente di quello stesso desiderio, una figura tragica la cui apparenza la condanna a un ruolo che lei stessa rigetta. La sua lealtà incrollabile verso Roger, l'antitesi fisica e caratteriale di ogni stereotipo di virilità, è l'elemento che la nobilita e la sottrae definitivamente al cliché.
Chi ha incastrato Roger Rabbit è anche un atto d'amore incondizionato verso la storia del cinema d'animazione. L'aver ottenuto la collaborazione di studi rivali come Disney e Warner Bros. per far apparire i loro personaggi di punta nelle stesse scene (Topolino e Bugs Bunny in paracadute, Paperino e Daffy Duck in un duello al pianoforte) non è solo un colpo di marketing, ma un evento storico, quasi un trattato di pace artistico. Il film diventa un pantheon, un'enciclopedia vivente in cui Droopy fa l'ascensore, Betty Boop la cameriera e i protagonisti dei due universi animati più importanti del XX secolo si incontrano, riconoscendo una comune appartenenza a un'unica, grande famiglia dell'immaginario collettivo.
Rivederlo oggi significa comprendere come Robert Zemeckis, al culmine della sua potenza creativa, abbia realizzato non solo un capolavoro di intrattenimento, ma un saggio cinematografico di rara intelligenza. È un film sulla memoria, sul modo in cui una cultura processa e mitizza il proprio passato. È una riflessione sulla natura dell'arte e sulla sua fragilità di fronte al pragmatismo del profitto. È un noir esistenziale travestito da farsa, un'allegoria razziale nascosta in una comica, un fulminante cortocircuito tra due linguaggi apparentemente inconciliabili che, nel loro scontro, hanno generato una scintilla di pura, inestinguibile magia cinematografica. Un'opera che non si limita a chiedere chi abbia incastrato Roger Rabbit, ma ci interroga su chi stia cercando di "incastrare" – o cancellare – la nostra stessa capacità di sognare.
Attori Principali
Paese
Galleria






Commenti
Loading comments...
