Chinatown
1974
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Regista
Jake Gittes, quel cinico investigatore privato specializzato in banalissimi casi di adulterio, incarna fin da subito la figura del p.i. classico, eppure c'è qualcosa di sottilmente anacronistico nella sua apparente superficialità. Non è l'eroe romantico o il giustiziere solitario, quanto piuttosto un uomo disilluso che opera ai margini di un sistema che, crede, di comprendere. La sua routine fatta di corna e ricatti è una facciata, una cortina fumogena dietro cui si cela un'innocenza residua, destinata a essere brutalmente lacerata.
Viene assunto da una donna, Evelyn Mulwray, per investigare sulla fedeltà del marito, un incipit che riecheggia i cliché del genere per poi deviare in un labirinto di potere e corruzione. Hollis Mulwray, colui su cui Jack dovrebbe indagare, è un ingegnere a capo del potente Dipartimento delle Acque di Los Angeles, un dettaglio non secondario. La siccità che affligge la California non è solo un elemento di sfondo ma il fulcro di un conflitto che affonda le radici nella storia stessa dello stato, dalle infami "guerre dell'acqua" della Owens Valley all'appropriazione violenta delle risorse idriche. La sua opposizione alla costruzione di una diga per combattere la siccità nella zona, infatti, non è idealismo astratto, ma un atto di resistenza contro un sistema predatorio che, come una piovra silenziosa, sta soffocando la città.
Continuando ad indagare Jack incrocia la strada dell’influente Noah Cross, un costruttore edilizio con in mano mezza città, che sembra avere a che fare con la vicenda. Noah Cross, la cui stessa nomenclatura evoca una figura biblica o un simbolo arcaico, è l'incarnazione del male primordiale, un patriarca che ha plasmato Los Angeles non con la visione ma con l'avidità. È il "Grande Vecchio" di Lovecraftiana memoria, la cui influenza permea ogni strato della società, dalla politica alla finanza, fino alle dinamiche più intime e perverse della famiglia.
Inizia così un’intricatissima vicenda di delitti e segreti che porterà l’investigatore a far luce su un nuovo mondo, a due passi da lui e tuttavia totalmente sconosciuto nella sua impenetrabile omertà. Questo "nuovo mondo" non è una semplice malavita da strada, ma un cancro istituzionale, una corruzione sistemica che è diventata la linfa vitale stessa della metropoli. Polanski, con la sceneggiatura di Robert Towne – un capolavoro di architettura narrativa, frutto di anni di ricerca e riscritture – non si limita a mostrarci il lato oscuro di una città, ma svela la genesi perversa di un intero impero basato sul furto e sull'incesto morale.
Una sceneggiatura a dir poco labirintica in cui lo spettatore fa davvero fatica a rinvenire il bandolo della matassa se non fosse per alcuni aiuti che Roman Polanski, coautore della sceneggiatura, inserisce qua e là. Questi "aiuti" sono briciole di pane gettate in un bosco oscuro, indizi quasi subliminali che accentuano il senso di disorientamento, rendendo lo spettatore complice della frustrazione e della confusione di Gittes. L'intento è chiaro: non offrire risposte facili, ma immergere il pubblico nell'ambiguità morale e nella fatalità che permeano il racconto. Questo è il cuore del neo-noir: non più solo un'estetica visiva di ombre e fumo, ma una destrutturazione psicologica dei suoi archetipi, un'indagine sulla futilità dell'eroismo in un mondo irrevocabilmente corrotto.
Di questo film è spesso citata la scena in cui Roman Polanski (in veste di attore), tirapiedi al soldo di Cross, sfregia Jack infilandogli un serramanico in una narice e affettandogliela. Quella cicatrice sul naso non è un semplice marchio fisico; è un sigillo, l'iniziazione brutale di Gittes al vero volto di Chinatown, un luogo simbolico dove le regole civili si dissolvono e la violenza è l'unica lingua parlata. È una violazione, sia fisica che morale, che lo segna per sempre e lo lega indissolubilmente al destino tragico che si dispiega davanti a lui. L'atto di Polanski stesso nel ruolo del carnefice aggiunge uno strato meta-narrativo, quasi come se il regista volesse sigillare il destino del suo protagonista con le proprie mani.
Un noir dai toni sofisticati e malinconici questo primo film di Polanski in terra americana, ma anche di una certa portata innovativa rispetto al classico pattern del noir anni ’50. Manca infatti la voce fuori campo che spesso fungeva da guida o da commento cinico nel noir classico – si pensi a Viale del Tramonto o La fiamma del peccato – e la sua assenza amplifica il senso di smarrimento. Ma rimane il carattere malinconico del protagonista che, esattamente come lo spettatore, finisce ingannato e incagliato in una vicenda di cui non sa distinguere i confini. La frase finale, iconica e agghiacciante, "Forget it, Jake. It's Chinatown," non è solo un consiglio ma un verdetto: il male è endemico, la giustizia un'illusione in un mondo in cui ogni apparenza di ordine è una facciata. Il film non offre catarsi, ma solo l'amara consapevolezza che, in certi contesti, la verità è un lusso che nessuno può permettersi e il cinismo l'unica arma di sopravvivenza.
Davvero ben assortita la coppia di attori: Jack Nicholson e Faye Dunaway, che lavorano in perfetta sintonia con naturalezza espressiva risultando peraltro estremamente credibili nei rispettivi ruoli. Nicholson, con il suo sorriso sornione che si trasforma in una maschera di orrore e disillusione, dipinge un Gittes lontano dall'eroismo tradizionale, un uomo la cui boria iniziale si sgretola sotto il peso della corruzione scoperta. Faye Dunaway, poi, è magistrale nel delineare la complessa figura di Evelyn Mulwray, una femme fatale ambigua e vulnerabile, la cui tragedia personale è il riflesso di un male generazionale e sistemico. La loro chimica sullo schermo non è solo estetica, ma veicola la disperazione e l'impossibilità di una vera connessione in un mondo marcio. La regia di Polanski, meticolosa e claustrofobica, avvolge i personaggi in un'atmosfera di fatalismo ineluttabile, accentuando la loro solitudine di fronte a forze troppo grandi per essere comprese o combattute. Anche la fotografia di John A. Alonzo, con le sue tonalità calde ma sature, quasi opache, evoca un'epoca dorata apparentemente innocente, che nasconde però un cuore nero.
Un film che richiede attenzione ai particolari ma che ripaga con un’atmosfera raffinata e ammaliante. Un'opera che, a quasi cinquant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua potenza destabilizzante e la sua agghiacciante rilevanza. Non è solo un capolavoro del neo-noir; è una discesa agli inferi dell'anima americana, un'inchiesta sull'eterna lotta tra innocenza e corruzione, che lascia un segno indelebile nello spettatore. La sua risonanza non risiede solo nella trama avvincente, ma nella capacità di svelare la fragilità delle illusioni e la persistenza del male, un monito che risuona ben oltre i confini della pellicola.
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