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Coda - I segni del Cuore

2021

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Regista

Ammettiamolo: a prima vista, inserire CODA in una lista dei "migliori film di ogni tempo" suona come un atto di populismo cinematografico, un cedimento al ricatto della lacrima facile. Sembra il classico film "carino", il comfort food da Oscar che piace alle zie. Ebbene, è qui che la critica convenzionale, con la sua puzza sotto il naso per tutto ciò che non sia un piano sequenza di tre minuti in bianco e nero, commette un errore madornale. CODA non è un film "carino". È un cavallo di Troia emotivo, un'opera di un'intelligenza e di una furbizia sopraffine che usa la formula del coming-of-age per farci ingoiare, senza che ce ne accorgiamo, una potentissima lezione sulla percezione, la famiglia e la natura stessa del linguaggio artistico. Il cinema, quando affronta la disabilità, cade quasi sempre in due trappole mortifere: o il pietismo à la Tiny Tim di dickensiana memoria, dove il personaggio è un angelo sofferente la cui unica funzione è ispirare la nostra benevolenza; o la agiografia del "supercrip", l'individuo che "nonostante tutto" compie imprese eroiche per farci sentire inadeguati.

CODA prende queste due convenzioni e le getta allegramente a mare insieme alle reti da pesca. La famiglia Rossi non è un "caso umano" da documentario strappalacrime. È un clan chiassoso, vibrante, sessualmente esplicito e orgogliosamente disfunzionale. La sordità non è un'assenza, ma una lingua diversa, un dialetto fisico che permette un'onestà brutale e una comicità irresistibile. La filigrana autoironica del film è la sua arma più tagliente. Il padre, Frank (un Troy Kotsur da antologia, la cui vittoria all'Oscar è stata un atto di giustizia poetica), non è un saggio patriarca, ma un pescatore irriverente preoccupato per la vita sessuale della figlia e per il prezzo del pesce. La sua recitazione, e quella di tutto il cast, non chiede compassione. Esige di essere guardata, capita, e derisa con affetto. È la liberazione della disabilità dalla prigione della tragedia.

Parliamo di "cifra estetica". Chi cerca in CODA le simmetrie pastello di Wes Anderson o le derive paniche di Terrence Malick ha sbagliato sala. L'estetica di Sian Heder non è nella composizione formale, ma nell' autenticità quasi tattile del suo mondo. La vernice scrostata della barca dei Rossi, il disordine della loro casa, le mani rovinate dalla pesca: non è poverty porn, è realismo. È un'estetica che ha più in comune con la solitudine dignitosa dei personaggi di Edward Hopper, colti in momenti di vita qualunque, o con la luce brutale che Caravaggio usava per illuminare la santità nei volti dei popolani, piuttosto che con l'autocompiacimento di tanto cinema d'autore. E poi, c'è il colpo da maestro. La scena del concerto di Ruby, dove il sonoro viene completamente azzerato. Per quasi un minuto, il film ci strappa il privilegio dell'udito e ci costringe a guardare la musica come la guarda la sua famiglia. Vediamo una gola che vibra, un volto che si trasfigura, un pubblico commosso. In quel silenzio, il cinema compie il suo miracolo più grande: non ci fa capire la sordità, ce la fa sperimentare, ce la cuce addosso. È un momento di empatia radicale che vale più di mille dialoghi e che giustifica da solo la visione del film. È la forma che diventa contenuto, un'idea di una purezza abbagliante.

Ecco perché CODA merita un posto nell'Olimpo. I grandi film non sono solo quelli che innovano il linguaggio con complessità formali, ma anche quelli che raggiungono una sintesi perfetta e apparentemente semplice tra storia, performance ed emozione. CODA è un'opera di ingegneria emotiva impeccabile. Ogni risata è preparata, ogni lacrima è guadagnata sul campo. Ma soprattutto, è un film che compie un'operazione culturale di un'astuzia brillante: prende la formula più rassicurante e collaudata del cinema americano (la storia di un underdog di talento che realizza il suo sogno) e la usa per portare al centro del discorso mainstream una comunità e una prospettiva radicalmente diverse.

Se i maestri europei come Bergman e Antonioni hanno passato la carriera a dissezionare l'incomunicabilità tra persone che, pur potendo parlare, non avevano nulla da dirsi, CODA celebra la comunicazione traboccante, fisica e incontenibile di chi, per il mondo, è "silenzioso". Dimostra che il silenzio non è un'assenza di suono, ma uno spazio che può essere riempito da un tipo diverso di linguaggio, forse anche più onesto. Per questa sua capacità di essere al contempo universale e specifico, semplice e profondissimo, CODA non è solo un film da vedere. È un film da sentire. E per questo equilibrismo sensoriale merita di stare in questa lista.

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