Movie Canon

The Ultimate Movie Ranking

Colazione da Tiffany

1961

Vota questo film

Media: 5.00 / 5

(2 voti)

Blake Edwards adatta un romanzo di Truman Capote per il grande schermo e ne traspone su pellicola l’intima levità sfrondandolo dell’atmosfera di tragedia minore che nel romanzo prevale sui toni da commedia. Questa operazione di trasfigurazione, lungi dall'essere una mera censura o una semplificazione, si rivela un audace atto di riscrittura che sposta l'asse narrativo dal nichilismo struggente dell'originale a una più digeribile, seppur complessa, parabola romantica. Capote stesso, notoriamente insoddisfatto della scelta di Audrey Hepburn in luogo della sua prediletta Marilyn Monroe e della "pulizia" dei toni legati alla professione di Holly, non colse forse la geniale intuizione di Edwards e degli sceneggiatori di cogliere il mood del tempo, trasformando una storia di sopravvivenza marginale in un'icona di stile e una riflessione sull'autodeterminazione femminile nell'America degli anni '60. Il film, infatti, pur edulcorando la matrice più oscura e malinconica del testo – pensiamo alla sessualità ambigua di Paul, o alla natura più esplicita del lavoro di Holly nel libro – riesce a catturare l'essenza della solitudine esistenziale che pervade entrambi i protagonisti, incastonandola in una cornice di scintillante ottimismo hollywoodiano che diventerà il suo marchio distintivo. È un delicato equilibrio tra l'autenticità del disagio e l'aspirazione al sogno americano, filtrato attraverso il glamour, un sottile gioco di velature che conferisce all'opera una profondità inaspettata sotto la sua superficie effervescente.

Ne nasce una storia d’amore glam, sofisticata, insolita. Un palinsesto visivo e sonoro che definisce un'epoca e plasma un'estetica. La sua "insolita" natura risiede non solo nella dinamica relazionale, ma nel modo in cui il film eleva la moda e la musica a veri e propri co-protagonisti, quasi personaggi muti che parlano più di mille parole. Gli abiti di Givenchy, il tubino nero che Hepburn indossa con la nonchalance di una dea metropolitana, non sono semplici costumi, ma estensioni della personalità di Holly, armature lucenti dietro cui si cela una vulnerabilità quasi infantile. La loro influenza si estende ben oltre il guardaroba cinematografico, definendo un intero decennio di eleganza e influenzando generazioni di trendsetter. E poi c'è la colonna sonora di Henry Mancini, in particolare "Moon River", che da semplice melodia si trasforma in un inno malinconico alla ricerca di un luogo a cui appartenere, un inno alla fluidità del desiderio e alla perenne incertezza dell'anima. La scena in cui Holly la canta alla finestra, accompagnandosi con la chitarra, è un momento di rara intimità, un epifenomeno di pura bellezza che squarcia il velo della sua mondanità, rivelando il cuore pulsante di una donna in cerca di radici, un archetipo della figura del "vagabondo elegante" che attraversa la cultura popolare del '900, dal flâneur baudelairiano al bohémien della Beat Generation, ma sempre con una grazia inimitabile.

Paul, giovane scrittore squattrinato, si è appena trasferito nel suo nuovo appartamento di New York, ed è attratto dalla sua bella vicina Holly. Ma Paul Varjak, interpretato con misurata sensibilità da George Peppard, non è un semplice comprimario o il tradizionale "cavaliere senza macchia". È egli stesso una figura complessa, un "gigolò letterario" mantenuto da una ricca signora (Patricia Neal, in una performance magistrale di sottinteso e rimpianto) e tormentato da un blocco dello scrittore che è metafora della sua stessa stasi esistenziale e di una profonda insicurezza circa il suo valore intrinseco. La sua attrazione per Holly non è solo fisica, ma è un riconoscimento di un'anima affine: entrambi, a modo loro, sono prigionieri di convenzioni sociali o di trappole dorate, in attesa di una liberazione, di una catarsi che si manifesterà nel loro incontro. La loro convivenza forzata nel microcosmo del condominio newyorkese diviene un laboratorio di analisi sui condizionamenti e le aspirazioni di una generazione che, pur immersa nel boom economico, iniziava a interrogarsi sul significato più profondo dell'esistenza.

La donna sembra possedere due vite: la prima è quella mondana in cui vola da una festa all’altra ed è perennemente al centro di ogni sguardo, la seconda è quella di una donna indifesa e complessata che si manifesta quando i due sono soli. Holly Golightly, un nome che è già programma – "Go lightly", procedere leggeri, senza radici – è una sineddoche perfetta dell'ambivalenza umana, un simulacro della giovinezza post-bellica che oscilla tra il desiderio di libertà e la ricerca disperata di sicurezza. La sua esuberanza apparentemente superficiale è una corazza, una performance quotidiana per celare la paura primordiale di essere "ingabbiata", di perdere quella libertà precaria che la definisce. La sua ossessione per Tiffany & Co., il luogo in cui "nulla di brutto può accadere", non è un capriccio materialistico, ma la ricerca di un santuario, di una stabilità che il mondo esterno le nega. È il suo feticcio, il suo rito scaramantico contro l'incertezza del vivere. Il suo non dare un nome al gatto ("Cat") è la più palese manifestazione di questa paura dell'attaccamento, della definizione, del legame che potrebbe compromettere la sua fuga eterna. Questa dicotomia tra la facciata sociale e l'io più intimo è il cuore pulsante del personaggio, rendendolo non solo un'icona di stile, ma un complesso studio psicologico sulla maschera e sull'identità in formazione, un'indagine sulla fragilità umana celata dietro l'apparato della socialité newyorkese.

Tra i due nascerà un sentimento incerto che dovrà superare le differenze che esistono tra i due. La loro relazione non è una favola convenzionale, ma un percorso accidentato, punteggiato da incomprensioni e rivelazioni, che riflette le complessità dei legami affettivi moderni. Paul, con la sua sensibilità e il suo sguardo disincantato ma empatico, riesce a penetrare le difese di Holly, a vederla per quello che è realmente, al di là della sua finzione sociale. Ed è proprio nel confronto tra la sua aspirazione a una vita "normale" e la fuga costante di Holly che si genera la tensione drammatica e il nucleo emotivo del film. L'evoluzione di questo rapporto è la vera spina dorsale del racconto, un lento disvelamento di anime affini che si riconoscono e si curano a vicenda. La pioggia battente nel finale, che lava via le maschere e le incertezze, è una metafora cristallina della catarsi emotiva che porta i due a confrontarsi con la verità dei loro sentimenti. Il bacio sotto la pioggia, con il gatto finalmente "salvato" e chiamato, non è solo la chiusura di un cerchio romantico, ma l'affermazione di una scelta consapevole: il rischio del legame contro la sicurezza sterile della solitudine, un inno alla vulnerabilità come fondamento di autentica connessione.

Un’opera che denuda la dialettica uomo-donna e ne costruisce un complesso documento ricco di rimandi letterari e di deliziosi siparietti. Al di là della trama romantica, "Colazione da Tiffany" è un'acuta indagine sulla condizione umana post-moderna, sulla ricerca di sé in una società in rapida evoluzione. I "rimandi letterari" non si limitano al solo Capote; l'opera evoca echi dei "perduti" anni '20 di Fitzgerald o del cinismo elegante di Dorothy Parker, ma li cala nel fermento di una New York in bilico tra la tradizione e l'esplosione della controcultura, un crocevia di speranze e disillusioni. I "deliziosi siparietti" – dalla celebre scena del furto mascherato nel negozio di cinque e dieci centesimi, alla surreale festa nell'appartamento di Holly, vera e propria antologia di eccentricità umana – non sono semplici gag, ma piccole finestre sul caos vitale che circonda i personaggi, contrastando con la loro intima malinconia. Sono momenti che definiscono il tono agrodolce del film, la sua capacità di far ridere e riflettere con la stessa intensità, rendendolo un mosaico di generi che sfuggono a facili categorizzazioni.

Si aggiunga l’eterea presenza di Audrey Hepburn nel film che ha consacrato il suo mito, e si otterrà la cifra dell’importanza cruciale di quest’opera. La sua performance non è solo iconica per lo stile, ma è un capolavoro di sottrazione e di espressività contenuta. Hepburn non si limita a vestire i panni di Holly; lei è Holly, con la sua fragilità disarmante, la sua eleganza innata e la sua scintilla ribelle. Ha saputo infondere nel personaggio una grazia e una vulnerabilità che trascendevano la visione di Capote, rendendo Holly accessibile e universalmente amata, nonostante le sue palesi contraddizioni. La sua interpretazione ha cementato non solo il suo status di icona di stile globale, ma anche quello di attrice capace di veicolare profonde sfumature emotive dietro un sorriso enigmatico. Il film, di conseguenza, non è solo un classico della commedia romantica, ma un pezzo fondamentale del Zeitgeist americano del XX secolo, un'opera che, attraverso la sua scintillante superficie, continua a interrogarci sulla natura della felicità, dell'identità e del desiderio di trovare, infine, un luogo da chiamare casa, anche se quel luogo è solo il cuore di un altro essere umano. È un invito a rischiare l'attaccamento, a osare l'amore, anche quando il "wild thing" che è in noi ci spinge a fuggire verso orizzonti incerti.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8
Immagine della galleria 9

Commenti

Loading comments...