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Va’ e Vedi

1985

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Un documento terribile sulle devastazioni e le atrocità commesse dall’esercito nazista nella campagna russa del 1943. E, ciò che più sconcerta e affascina, al contempo un’opera di assoluto rilievo estetico, di fatto unanimemente considerato uno dei più bei film di guerra mai girati. La sua bellezza non è conciliante, ma un pugno nello stomaco, una bellezza lacerante che affonda le radici in un realismo brutale, quasi documentaristico, eppure elevato a vette di espressionismo onirico che lasciano il segno nell'anima dello spettatore, trasformando la visione in un'esperienza sensoriale e psicologica estrema.

Tratto da un racconto di guerra di Ales Adamovich e rielaborato in un suggestivo registro introspettivo da Elem Klimov narra le vicende di un sedicenne bielorusso, travolto dall’invasione tedesca e dal vortice di orrore che gli invasori si lasciano alle spalle. Il percorso creativo di Klimov per realizzare questa pellicola fu tormentato e lungo vent’anni, ostacolato dalla censura sovietica che ne temeva la crudezza e la non retorica rappresentazione dell'eroismo. Solo l'avvento della glasnost permise finalmente a questa visione così radicale di vedere la luce.

È singolare come Klimov, dopo quello che viene considerato il suo capolavoro, non realizzerà più nessun’altra opera, come se l’immane sforzo creativo profuso in Va’ e Vedi l’abbia svuotato: lui stesso in più di un’intervista ammetterà che dopo aver finito di girare questo film si ritrovò in totale crisi espressiva, come se avesse già detto tutto quel che aveva da dire, esausto dall'aver dato voce a un orrore che trascendeva la narrazione. Fu un atto di sacrificio artistico, quasi un'ablazione volontaria della sua capacità di creare ulteriore finzione, dopo aver confrontato la realtà più cruda. Non si trattò di una semplice interruzione, ma di una ritirata etica dall'arte, un rifiuto di trivializzare, attraverso nuove opere, la profondità del trauma esplorato. Un gesto di coerenza rara, che eleva il suo ultimo lavoro a testamento definitivo.

Grazie al successo di quest’opera Klimov fu nominato da Gorbaciov primo segretario dell’Unione dei Cineasti, il potente sindacato russo per le opere cinematografiche, ma non tornò mai più a calcare un set.

Bielorussia, 1943. Il sedicenne Flëra Gaišun trova per caso un fucile e decide di arruolarsi nella resistenza partigiana contro l’invasore tedesco che arriva da ovest. Nonostante la madre lo scongiuri di restare a vegliare su lei e le due sorelline, Flëra parte per il fronte. Inizia così un travagliato periplo nell’orrore della guerra: il ragazzo si unisce a reparti di civili militarizzati in fretta e furia e senza un vero e proprio obiettivo militare. La macchina da presa di Klimov si fa qui un'estensione degli occhi attoniti di Flëra, inquadrando con una vicinanza quasi soffocante il suo volto che, di scena in scena, si trasforma, ingrigito non dagli anni ma dalla visione dell'indicibile. Quello che inizia come il rito di passaggio di un adolescente desideroso di avventura si muta in un'implacabile discesa negli abissi dell'orrore, un "bildungsroman" al contrario, dove la formazione è demolizione e l'innocenza si sgretola sotto il peso di ogni atrocità. Si narra che il giovane attore, Aleksey Kravchenko, fosse sottoposto a un regime di stress controllato, con l'uso di proiettili veri che fischiavano vicino alla sua testa, per instillare in lui la paura autentica necessaria a rendere il dramma del suo personaggio.

Flëra fa amicizia con una maliziosa e procace ragazza che sembra distoglierlo per un attimo dalle crudeltà di un conflitto bellico immanente e totale. Tornato al proprio villaggio dopo un attacco di aviazione e artiglieria troverà i propri famigliari trucidati, rifiutando la visione dei cadaveri ammucchiati ai margini del villaggio e gettandosi alla loro inutile ricerca nelle paludi circostanti. Flëra continua a vagare senza meta all’interno di una devastazione sempre più totale, sempre più surreale, in una Bielorussia che, storicamente, fu la regione più devastata della Seconda Guerra Mondiale, un vero e proprio "campo di sterminio" all'aperto dove le politiche di annientamento naziste trovarono la loro più atroce applicazione, con milioni di civili massacrati e interi villaggi cancellati dalla mappa.

Si unisce a tre soldati sbandati condividendo con loro un pezzo di strada per poi restare di nuovo solo dopo la loro morte. Infine giunge ad un villaggio dove per la prima volta incontra il nemico dal vivo. I tedeschi ammassano donne e bambini in una grande baracca poi la incendiano gustandosi lo spettacolo, in una raccapricciante sequenza di morte. Questa scena, ispirata ai veri massacri perpetrati dalle Einsatzgruppen e dalle SS in Bielorussia, in particolare quello di Khatyn (cui Adamovich dedicò un libro), non è solo un picco di efferatezza, ma un culmine di perversione, dove l'atto di distruzione diventa spettacolo per i carnefici. Klimov filma l'evento con un distacco agghiacciante, concentrandosi sull'impatto psicologico su Flëra, piuttosto che sul gore esplicito, lasciando all'immaginazione dello spettatore la pienezza dell'atrocità, in un'eco di Goya e del suo sguardo sulle "Disastri della guerra". Flëra sconvolto e disgustato viene lasciato fuori ad assistere a quel macabro spettacolo per poi fingersi morto e scampare al massacro. Il suo viso, un tempo puerile, è ormai segnato da rughe precoci, specchio di un'anima precocemente invecchiata dalla sofferenza, un Dorian Gray della guerra, dove il ritratto è la sua stessa pelle martoriata. Ma grazie ad una brigata di partigiani potrà avere la sua amara vendetta.

Un’opera brutale e silenziosa, vasta come le immense foreste che Flëra attraversa, di una bellezza lancinante. Ma è una bellezza che non concede tregua, un'estetica dell'orrore che si serve di una fotografia livida e di un sonoro ossessivo – il ronzio delle mosche, il crepitio degli spari, il pianto soffocato, i rimbombi di una violenza mai pienamente mostrata ma sempre avvertita – per calare lo spettatore in una dimensione claustrofobica, quasi tattile del dolore. Ogni scena, ogni sguardo del giovane Aleksey Kravchenko, la cui interpretazione è di una mimesi disarmante, è una ferita aperta.

Tante le scene memorabili che colpiscono come magli determinando un’iconografia del dolore: la foto di gruppo con i soldati tedeschi che irridono i cadaveri tenendo una pistola puntata alla tempia del ragazzo, l’anziano ufficiale della Wehrmacht con un cincillà sulla spalla che non si cura del destino delle sue vittime, figura emblematica di una crudeltà disinteressata e grottescamente raffinata. Poi la donna dell’esercito tedesco che mangia aragosta nell’auto contemplando compiaciuta corpi e vite bruciare nell’agonia di un dolore senza fine, emblema di una volgare indifferenza che è forse più inquietante della brutalità aperta. O il momento in cui Flëra, trovato un ritratto di Hitler, usa per la prima volta il suo sghembo fucile sparando con rabbia e amarezza al volto di quell’uomo che aveva causato tanta sofferenza, non un gesto di vendetta trionfante, ma un atto di catartica e disperata ribellione contro la fonte ultima di quel male abissale. E ancora, l’aereo da ricognizione tedesco che più volte passa sulla testa di Flëra ad annunciare distruzione e morte in un volo algido e silenzioso, muto messaggero di morte, figura quasi mitologica che aleggia come un rapace sulla preda designata. Va' e Vedi non è solo un film sulla guerra, ma un monito eterno sull'abisso della crudeltà umana, un'esperienza sensoriale che si imprime a fuoco nella memoria, un capolavoro che non si guarda, ma si vive, e da cui si emerge in qualche modo mutati, portando con sé l'eco straziante delle grida e il peso insopportabile del silenzio.

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