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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Come in uno specchio

1961

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L’isola di Fårö, prima di diventare il rifugio testamentario di Ingmar Bergman, è stata il suo laboratorio a cielo aperto, un palcoscenico scarnificato su cui proiettare i fantasmi dell'anima. E in nessun luogo questo è più vero che in Come in uno specchio, apertura della sua cosiddetta "Trilogia del silenzio di Dio". L’isola non è uno sfondo, ma un reagente chimico, una landa desolata e battuta dal vento che agisce sui quattro personaggi isolati come un vetrino da microscopio, esponendone ogni crepa, ogni disperata menzogna. Bergman orchestra un quartetto da camera per anime stonate, dove ogni strumento – il padre, la figlia, il marito, il fratello – suona una melodia di incomunicabilità e disperazione che si armonizza in una sinfonia di angoscia esistenziale.

Il film si apre su una nota quasi ingannevole di serenità familiare, un bagno in mare che ha la parvenza di una purificazione, ma che è solo il preludio a una discesa in un abisso privato. I quattro sono intrappolati in una vecchia casa in riva al mare, un microcosmo che riflette la prigione delle loro relazioni. C'è David (Gunnar Björnstrand), il padre romanziere, un intellettuale che osserva la malattia mentale della figlia Karin con la fredda curiosità di un entomologo. La sua tragedia non è solo la distanza emotiva, ma un peccato più profondo, quasi faustiano: egli usa la sofferenza di sua figlia come materiale grezzo per la sua arte, annotando i suoi sintomi con una lucidità che è, a tutti gli effetti, una forma di vampirismo emotivo. È una figura che prefigura l'artista-demiurgo di Persona, un uomo che crede di poter contenere e comprendere il caos della vita attraverso la scrittura, solo per scoprire che le parole sono barriere, non ponti. In lui riecheggia il James Joyce di Ritratto dell'artista da giovane, ma svuotato di ogni fervore creativo e riempito solo del gelo della propria ambizione.

Poi c'è Karin, interpretata da una Harriet Andersson la cui performance trascende la recitazione per diventare una vera e propria possessione fisica e spirituale. Appena dimessa da un ospedale psichiatrico, la sua schizofrenia non è presentata come una patologia clinica, ma come una condizione metafisica. Le sue allucinazioni non sono semplici deliri, ma teofanie terrificanti. Sente delle voci provenire da dietro la carta da parati scrostata, voci che le promettono la visita di Dio. Bergman, con un coraggio quasi blasfemo, non ci offre la comoda spiegazione della malattia; ci costringe invece a interrogarci sulla natura di questa "visita". Se Dio esiste, perché il suo manifestarsi assume i contorni dell'orrore? La stanza vuota di Karin diventa un non-luogo sacro e profano, un Kadosh Kadoshim dell'anima in cui l'assenza di Dio è così assordante da generare i propri mostri.

A completare il quartetto ci sono Martin (un Max von Sydow che incarna una mascolinità impotente e amorevole), il marito medico che cerca di arginare il caos con la razionalità e la cura, fallendo miseramente, e Minus (Lars Passgård), il fratello adolescente, un groviglio di insicurezze e desideri inespressi, la cui crisi sessuale e spirituale si specchia e si intreccia con quella della sorella in una scena di incesto tanto disturbante quanto disperatamente tenera. È il personaggio che funge da nostro proxy, il testimone innocente (ma non troppo) della disintegrazione.

La fotografia di Sven Nykvist, qui alla sua prima, fondamentale collaborazione con Bergman per la trilogia, è un capolavoro di contrasti assoluti. La luce del Baltico, accecante e spietata, non illumina, ma espone. Non c'è un'ombra in cui nascondersi. Gli interni sono claustrofobici, i primi piani sono mappe geografiche di volti su cui leggere la disperazione, la paura, il vuoto. Nykvist non dipinge con la luce, scolpisce il buio. L'uso che fa delle superfici riflettenti – l'acqua, i vetri delle finestre, gli specchi – è una continua eco del titolo paolino ("Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa"), un memento costante che la realtà percepita è solo un'immagine distorta, un'eco imperfetta di una verità irraggiungibile.

Il climax del film è una delle scene più agghiaccianti della storia del cinema, un momento di horror cosmico che farebbe impallidire Lovecraft. L'attesa di Karin per la rivelazione divina si risolve in una visione epifanica e mostruosa: Dio si manifesta sotto forma di un ragno. Questa non è l'assenza di Dio, è qualcosa di peggio: è un Dio indifferente, mostruoso, alieno. Una divinità gnostica, un demiurgo aracnide che tesse la tela della nostra esistenza senza amore né scopo. È una visione che polverizza secoli di teologia occidentale, riducendo la fede a un incontro terrificante con l'Altro assoluto. È l'equivalente cinematografico del "Grande Inquisitore" di Dostoevskij, ma senza nemmeno il conforto di un Cristo silenzioso. Qui, al posto del Cristo, c'è solo l'orrore indicibile di un insetto che tenta di possedere Karin. L'elicottero che arriva per portarla via non è un deus ex machina salvifico, ma un'ambulanza meccanica e impersonale, il simbolo di un mondo moderno che può solo sedare il mistero, non comprenderlo.

Eppure, dopo averci trascinato nelle profondità di questo abisso teologico, Bergman compie una virata inaspettata. Nell'ultima scena, David e Minus, padre e figlio, finalmente si parlano. Distrutto dal senso di colpa e dalla propria impotenza, David tenta di offrire al figlio un appiglio, un fragile brandello di speranza. Gli confessa la sua incapacità di amare, il suo egoismo, e poi, quasi balbettando, arriva a una conclusione: "Dio è amore. Amore in tutte le sue forme, le più assurde, le più incredibili". È una delle battute più dibattute e potenti del cinema di Bergman. È una vera rivelazione o l'ultimo, disperato tentativo di un intellettuale fallito di dare un nome al vuoto? È una professione di fede o un placebo per un'anima terrorizzata?

Bergman, da maestro qual è, lascia la domanda sospesa. La speranza offerta è flebile, quasi impercettibile, come una candela accesa nel cuore di una tempesta. Ma è proprio in questa fragilità che risiede la sua forza sconvolgente. Come in uno specchio non è un film che offre risposte. È un'opera che perfeziona le domande. Ci costringe a guardare attraverso il vetro opaco della nostra condizione, a confrontarci con il silenzio di Dio, con il fallimento del linguaggio e con la terrificante possibilità che l'unica salvezza risieda in quel sentimento umano, imperfetto e disperato che chiamiamo amore. Un'opera teatrale filmata con la precisione di un chirurgo e l'anima di un poeta maledetto, un'incisione su celluloide che continua, a decenni di distanza, a sanguinare verità.

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