Come le foglie al vento
1956
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Regista
Pochi film definiscono il proprio genere con la stessa autorità estetica e la stessa carica sovversiva di Come le foglie al vento. Questo è l'apice del melodramma della metà degli anni Cinquanta, il momento in cui Douglas Sirk, un esule tedesco trapiantato a Hollywood, prese gli strumenti che la Universal-International gli metteva a disposizione—il Technicolor saturo, le star più pagate, le trame da soap opera—e li usò come un bisturi per sezionare il cadavere del Sogno Americano. Il film è un assalto visivo, un'orgia di colori primari così aggressivi da risultare tossici. Il rosso non è rosso, è il colore del desiderio represso e del sangue versato; il giallo della Corvette di Kyle all'inizio del film non è solare, è il colore della malattia. Sirk dipinge un mondo di superfici laccate, lucide e perfette, solo per mostrarci la putrefazione che esse nascondono, un mondo dove tutto, come suggerisce il titolo, è già morto e in balia del vento.
La storia, adattata da un romanzo pulp di Robert Wilder, è la cronaca di una dinastia petrolifera texana, gli Hadley, che ha tutto ciò che il capitalismo americano del dopoguerra può offrire: ricchezza incalcolabile, potere assoluto e una disfunzione psicologica terminale. Il patriarca Hadley ha costruito un impero, ma ha generato due mostri. È un materiale che rasenta il Grand Guignol, e Sirk lo tratta con la serietà di una tragedia greca, o forse, più accuratamente, come un dramma di Tennessee Williams privato di ogni poesia e caricato di nevrosi freudiane. Il centro di questo vortice sono i due eredi: Kyle Hadley (Robert Stack) e Marylee Hadley (Dorothy Malone). Sono l'alcolismo e la ninfomania, l'impotenza e l'isteria, due facce di una stessa medaglia di autocommiserazione e privilegio. Hanno passato la vita all'ombra del migliore amico di famiglia, il competente e virile Mitch Wayne (Rock Hudson), e questo ha avvelenato la loro intera esistenza.
L'interpretazione di Robert Stack, candidato all'Oscar, è un fascio di nervi scoperti. Il suo Kyle è un uomo-bambino patetico, definito interamente dalla sua inadeguatezza e dal suo terrore dell'impotenza, sia sessuale che professionale. Si aggrappa alla bottiglia come a un surrogato della mascolinità che non possiede. Ma il film, in realtà, appartiene a Dorothy Malone, che vinse un meritatissimo Oscar come miglior attrice non protagonista. La sua Marylee è una forza della natura distruttiva. È il puro Id scatenato, una donna consumata da un desiderio che non può soddisfare (quello per Mitch) e che quindi decide di bruciare l'intero mondo intorno a sé. La sua celebre sequenza di mambo, eseguita mentre il padre ha un attacco di cuore, è un momento fondamentale del cinema americano: non è una danza, è un atto di ribellione nichilista, un rituale pagano di frustrazione sessuale eseguito nel tempio del capitalismo (la villa Hadley). Sirk la incornicia in stanze piene di specchi, raddoppiando la sua immagine e la sua disperazione.
In questo serraglio di nevrotici, Sirk introduce i due personaggi "sani", gli esterni che servono da metro di paragone morale. Rock Hudson (Mitch) e Lauren Bacall (la protagonista femminile, Lucy Moore, che Kyle sposa precipitosamente) sono gli agenti della normalità. Vengono dal mondo del lavoro, della razionalità, della competenza. Sirk e il suo direttore della fotografia Russell Metty li filmano in modo diverso: i loro colori sono più freddi (blu, beige, grigi), la loro recitazione è più controllata. Sono l'argine che dovrebbe contenere la follia degli Hadley. Ma nel cinema di Sirk, la normalità è pallida, quasi noiosa. Il vero spettacolo è la decadenza. Lauren Bacall, in particolare, con la sua aura da noir anni Quaranta, sembra quasi fuori posto in questo Technicolor sgargiante, un residuo di un'epoca più cinica ma forse meno malata. Il film, in fondo, è un'analisi della lotta di classe tra chi i soldi li eredita (e ne viene distrutto) e chi li deve guadagnare (e ne comprende il valore).
Il genio di Douglas Sirk risiede nel suo linguaggio visivo, nella sua mise-en-scène critica. Come le foglie al vento è l'esempio perfetto di come il regista usi lo spazio e gli oggetti per commentare i suoi personaggi. La villa Hadley, un trionfo di modernismo anni '50, è una prigione di vetro e marmo. I personaggi sono costantemente filmati attraverso cornici di porte, riflessi in specchi, separati da mobili lussuosi. Sono intrappolati nel loro stesso benessere materiale. Gli oggetti diventano simboli quasi sfacciati: i pozzi di petrolio fallici che pompano incessantemente fuori dalla finestra della camera da letto di Kyle, ricordandogli la sua virilità fallita; l'aeroplano giocattolo che Kyle stringe a sé, simbolo della sua infanzia mai superata; e soprattutto la scala monumentale della villa, che non è un elemento architettonico, ma un'arena drammatica, il luogo della caduta, del confronto e della morte.
Il culmine del film è un'esplosione di violenza, processi e confessioni, come il genere richiede. Eppure, il finale non porta a una vera catarsi. Certo, i buoni (Mitch e Lucy) se ne vanno insieme, liberi di vivere una vita normale. Ma l'inquadratura finale, quella che rimane impressa, è un'icona di dannazione. Marylee, ora sola padrona dell'impero Hadley, è seduta alla scrivania del padre, vestita a lutto, mentre abbraccia disperatamente il modellino dorato del pozzo di petrolio. Ha ottenuto tutto e ha perso tutto. È il ritratto perfetto della vacuità della ricchezza, un'immagine finale di un'intensità quasi pittorica. Come le foglie al vento è un capolavoro non nonostante il suo genere, ma grazie ad esso. È un film che, sotto la superficie di una storia dozzinale, nasconde una delle critiche più acute e visivamente intelligenti mai fatte alla società americana.
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