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Control

2007

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Ian Curtis fu il cuore pulsante di una band che nella scena post-punk inglese raggiunse vette di incommensurabile popolarità dopo soli due album. Non si trattò di una semplice ascensione nelle classifiche, ma della cristallizzazione di un’iconografia e di un suono che avrebbero inciso un solco indelebile nell’immaginario collettivo, superando il breve arco temporale della loro esistenza.

I Joy Division si formarono a Manchester nel 1977 e si sciolsero con la morte di Ian nel 1980, lasciando dietro di sé una scia di mistero e un’eredità artistica che continua a risuonare, un’eredità fatta di dissonanze e oscure armonie, di parole scandite con una gravità quasi profetica.

Control, il film di Anton Corbijn, non è un semplice omaggio, ma una vera e propria esegesi del mito di Ian e della sua difficilissima convivenza con l'epilessia e il successo, due elementi esogeni ed endogeni che destabilizzarono a fondo il suo già fragile equilibrio psicologico, portandolo al suicidio nel 1980 a soli ventitré anni. La pellicola si immerge con un coraggio quasi chirurgico nelle pieghe di un’esistenza tesa, un filo precario tra l’incandescente fiamma creativa e l’abisso di un’anima tormentata. La narrazione non si limita a un resoconto cronologico, ma cerca di penetrare la psiche di un artista che, quasi come un novello Icaro, si è bruciato alla vampa della sua stessa, disarmante, genialità.

La vita di Ian, un vero e proprio dramma greco moderno, si divise tra la moglie Deborah, che sposò giovanissimo e che gli diede una figlia, e l’amante, una giornalista belga, Annik Honoré, che Ian conobbe nel backstage di un suo concerto. Questa dualità, questa scissione tra il focolare domestico e l’attrazione fatale per una complice del suo viaggio artistico, è uno degli assi portanti del film, un elemento che accresce la dimensione tragica e l’empatia per un uomo dilaniato da forze troppo grandi per lui, intrappolato tra doveri e desideri insopprimibili. La fedeltà alla biografia, basata in gran parte sul libro di Deborah Curtis, Touching From a Distance, conferisce al racconto una profondità e una veridicità sconvolgenti, evitando ogni edulcorazione agiografica.

Non c’è enfasi né retorica da panegirico nel film che deve il titolo ad una canzone che Ian scrisse, con preveggente malinconia, in memoria di un’amica uccisa dall’epilessia: “She’s Lost Control”. Il titolo stesso, nella sua duplice valenza, diventa una metafora pregnante non solo della patologia, ma anche della perdita di ogni padronanza sulla propria vita, sul proprio corpo, sul proprio destino da parte del protagonista.

Corbijn gira in un bianco e nero di sfolgorante intensità che non è mera scelta stilistica, ma vera e propria materia narrativa. Questo monocromatismo riverbera il mood della band e la sua genesi in un’Inghilterra post-industriale, periferica, marginale. Lo spirito di una Manchester fredda e cruda, ma vibrante di una creatività nichilista eppure vitale, ritorna nell’opera sotto forma di elemento iconografico portante, quasi un personaggio muto che definisce gli spazi e gli umori. Non si tratta di un bianco e nero meramente estetizzante, ma di una rilettura formale che evoca il neorealismo per la sua capacità di catturare la desolazione degli ambienti e la gravità dei volti, pur mantenendo una sofisticata composizione che richiama la grande fotografia d’autore.

Va detto che Corbijn, qui alla sua prima opera da regista, è un fotografo prestato al mondo del cinema, ma con un’esperienza visiva e una sensibilità forgiate da decenni di lavoro. Famoso per le sue fotografie di un bianco e nero seducente ed estetizzante, capace di catturare l'anima dei soggetti con un gioco sapiente di luci e ombre, fu la cornice con cui Corbijn ritrasse un pantheon di rock star internazionali: da Mick Jagger a Nick Cave, da Tom Waits a Johnny Rotten. La sua direzione della fotografia per Control è un’estensione naturale della sua cifra stilistica, dove ogni inquadratura è meditata, ogni dettaglio significativo, trasformando gli ambienti spogli e le esibizioni grezze in quadri vividi, intrisi di una malinconia palpabile e di una bellezza austera. Questo approccio quasi documentaristico, ma intriso di una profonda sensibilità per l'immagine, è ciò che eleva il film al di là della semplice biopic.

Control è un film per certi versi destabilizzante, perché è girato con la potenza semantica di un documentario, la sua fedeltà quasi clinica ai fatti e ai personaggi, ma anche con la forza narrativa della drammatizzazione degli eventi. Questa ibridazione lo rende un’opera unica nel panorama delle biografie musicali. L'interpretazione di Sam Riley nei panni di Ian Curtis è un vero tour de force: non si limita a una mera imitazione fisica o vocale, ma incarna l'anima tormentata del musicista con una mimesi disarmante, capace di restituirne le nevrosi, le epifanie e le cadute. Le performance sul palco, riprodotte con una fedeltà quasi maniacale, sono il cuore pulsante e febbrile del film, restituendo la fisicità convulsa e ipnotica di Curtis.

Ne scaturisce un’opera incantevole, nel suo essere intrinsecamente tragica, che attraverso la devastazione emotiva di un ragazzo schiude le porte alla sua lucida analisi introspettiva, mettendone in luce, con una delicatezza commovente e al contempo brutale, il genio fulminante e la tremenda fragilità. Control non glorifica la sofferenza, ma la esplora con rispetto e acume, lasciando lo spettatore con la consapevolezza della complessità di un’esistenza che, seppur breve, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia della musica e, in definitiva, dell'arte.

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