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Corpo e Anima

2017

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La cadenza del tempo misurata nelle piccole cose: un flusso lento che si riverbera attraverso i fotogrammi di questo film generando il palpitante quadro di un amore sussurrato, in tralice, senza strepiti. È un cinema che respira a pieni polmoni l’attesa, che eleva l’ordinario a straordinario, costringendo lo spettatore a una contemplazione quasi meditativa, lontana dalle frenetiche sollecitazioni a cui il grande schermo ci ha abituati. Questo approccio minimalista, che evoca echi del rigoroso stile di un Robert Bresson o della dilatazione temporale di certi maestri del "slow cinema" est-europeo, non è una scelta pigra, ma una decisione estetica radicale che amplifica ogni sfumatura, ogni sguardo mancato, ogni gesto incerto.

Corpo e Anima è uno di quei rari film dove il silenzio è un campo magnetico essenziale alla narrazione, ne diventa elemento portante, ne edifica la rarefatta poetica. Non si tratta di una semplice assenza di dialogo o di colonna sonora, bensì di un silenzio denso, gravido di non detto, che permette ai pensieri inespressi e alle emozioni sopite di emergere con una forza quasi tangibile. In un mondo cinematografico spesso assordante, questo vuoto sonoro si trasforma in un palcoscenico per l'interiorità dei personaggi, un invito all'ascolto attento delle dissonanze e delle armonie che definiscono la loro fragile esistenza.

Ildiko Enyedi è una regista ungherese che si rimette in gioco con questa opera dopo 18 anni di assenza dai set, un lasso di tempo che nella storia del cinema può sembrare un’eternità, ma che qui si traduce in una maturazione artistica profonda e quasi mistica. E in verità era stato davvero interessante il suo ultimo film Simon Magus (1999), un’opera complessa e allegorica che già indagava temi di spiritualità e solitudine, ma con un’impronta più eterea e meno ancorata alla fisicità brutale della quotidianità. Con Corpo e Anima, la regista raggiunge tuttavia una maturità artistica fino ad ora solo sfiorata, plasmando una piccola grande perla della cinematografia che si regge sulla peculiarità dei due personaggi principali e sul loro onirico legame emotivo. Il suo ritorno non è solo un rientro in scena, ma una riaffermazione di una voce autoriale distintiva nel panorama del cinema ungherese, spesso dominato da visioni più pessimiste o socialmente esplicite, come quelle di un Béla Tarr. Enyedi, invece, infonde nella sua opera una poesia surreale e una tenerezza inaspettata, pur mantenendo una lucidità quasi clinica.

Alla periferia di Budapest, l’anziano e cinico Direttore di un piccolo macello, Endre, è abituato a nascondere il braccio sinistro disabile, insieme alle sue emozioni, dietro ad una fitta cortina che lo separa dal mondo e lo tiene al riparo dall’umanità dei suoi simili. I suoi gesti, le sue parole, la sua postura persino, tutto in lui trasuda cinismo, disincantata ironia e amara rassegnazione, la maschera di un uomo che ha imparato a proteggersi dal dolore e dalla delusione chiudendosi in una fortezza inespugnabile di solitudine. La sua disabilità fisica non è solo un dettaglio, ma un simbolo della sua incapacità, o forse della sua paura, di connettersi pienamente con gli altri, un correlativo oggettivo della sua condizione emotiva.

Nella sua vita celata, inaspettatamente, fa la sua timida comparsa una nuova figura: Mária, la nuova ispettrice della qualità della carne, essere criptico e glacialmente bello che sembra totalmente avulso dal tessuto sociale. La ragazza ha un comportamento strano: è eccessivamente pignola sul lavoro, algida e distaccata, non da confidenza ai colleghi e non ama essere toccata. Le sue reazioni, al limite dello spettro autistico, la rendono una figura enigmatica e al tempo stesso straordinariamente vulnerabile. Mária vive in un mondo di precisione e ordine matematico, dove le sfumature emotive e le convenzioni sociali sono rumore bianco, un labirinto incomprensibile. La sua ipersensibilità ai contatti fisici e la sua difficoltà nel gestire le interazioni umane la rendono un’emarginata quanto Endre, seppur per ragioni diametralmente opposte.

La cornice dell’incontro tra Endre e Mária è il freddo mattatoio, un non luogo dove la mattanza dei bovini assurge ad olocausto delle emozioni, e il sangue degli animali che sgorga dalle carcasse scannate diviene una sorta di liquido amniotico che avvolge i due amanti e li precipita in un Limbo sensoriale dove realtà e sogno si compenetrano. Questa ambientazione non è affatto casuale; è una scelta programmatica che esalta il contrasto tra la cruda, viscerale fisicità della morte e la delicatezza eterea di un amore che nasce nella sfera più intima dell'inconscio. Il macello, con i suoi rumori metallici e il suo odore penetrante, è un luogo di routine spietata, di anonimato e di una violenza intrinseca che rispecchia, per antitesi, la profonda e quasi sacra vulnerabilità che i due protagonisti impareranno a condividere. È un teatro primordiale dove la sofferenza degli animali si fa metafora di quella umana, e dove il corpo, nella sua più estrema manifestazione di fragilità e mortalità, spinge l'anima a cercare una connessione trascendente.

Un piccolo furto all’interno delle mura dell’azienda da il via ad una serie di controlli psicologici che vengono eseguiti su tutti i dipendenti: i due scoprono così, raccontando lo stesso sogno alla psicologa incaricata dei test, di vivere sullo stesso piano onirico durante la notte. Il sogno che Endre e Mária condividono è quello di due cervi che vagano in un algido bosco innevato abbeverandosi alla bellezza della natura e dei propri sensi. Questa rivelazione è il fulcro del film, l'elemento di realismo magico che eleva la narrazione oltre il dramma sociale. I cervi, simboli ancestrali di purezza, grazia e innocenza, rappresentano la loro vera essenza, immacolata e vulnerabile, libera dalle armature imposte dalla vita diurna. Il bosco innevato è un Eden incontaminato, un rifugio spirituale dove le loro anime possono incontrarsi e connettersi senza le barriere del corpo o le ansie della società.

Un legame inquietante e quasi spirituale inizierà a svilupparsi tra i due teneri emarginati, mentre, sempre più, le loro vite si intrecciano indissolubilmente. È una relazione che, per la sua unicità, ricorda certi amori non convenzionali del cinema contemporaneo, come la connessione tra l’uomo e l’intelligenza artificiale in Her di Spike Jonze, seppur qui la matrice sia intrinsecamente umana e più profondamente radicata nella psiche. La sfida che Enyedi pone è la più ardua: come trasporre la perfezione eterea del sogno nella scomoda, spesso brutale, realtà della veglia? Tuttavia, i due sognatori sono davvero pronti a vivere la catarsi del loro amore sia nel corpo che nell’anima? La risposta a questa domanda è un percorso accidentato, intimo e doloroso, che il film esplora con una delicatezza commovente, mostrando come la vera intimità si raggiunga non nella perfezione ideale, ma nell’accettazione reciproca delle imperfezioni e delle ferite, in un viaggio coraggioso dalla solitudine onirica alla fragilità della connessione umana concreta.

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