Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Crimini e Misfatti

1989

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Entrare nel labirinto esistenziale di Woody Allen è sempre un'esperienza che mescola l'ilarità intellettuale con un'angoscia metafisica profondamente radicata. Ma con "Crimini e Misfatti" il regista newyorkese non si limita a farci sorridere con le nevrosi dei suoi personaggi; ci trascina in un abisso morale, una disamina spietata e disturbante sulla natura umana, sulla giustizia e sull'assenza di essa, che lo colloca di diritto tra i capolavori imprescindibili della nostra Movie Canon. È un'opera che, pur nella sua cifra stilistica inconfondibile, abbandona le risate facili per abbracciare un tono più cupo, quasi bergmaniano, interrogandosi sui grandi interrogativi etici senza offrire facili risposte.

Il film intreccia due storie parallele, due filoni narrativi che si muovono su binari apparentemente distinti, ma destinati a scontrarsi e a riflettersi l'uno nell'altro come in uno specchio deformante. Da un lato, abbiamo la vicenda di Judah Rosenthal, un oculista facoltoso e rispettato, la cui vita agiata e la cui reputazione impeccabile sono minacciate da una relazione extraconiugale con la volubile hostess Dolores Chasin. Dall'altro, seguiamo le peripezie di Clifford Stern, un documentarista idealista e un po' sfigato, che lotta per realizzare i suoi progetti artistici mentre è costretto a filmare un documentario celebrativo sul cognato, il mellifluo e vanitoso produttore televisivo Lester.

La vicenda di Judah è il cuore oscuro del film. La sua esistenza, costruita su pilastri di rispettabilità borghese, viene scossa alle fondamenta dalla minaccia di Dolores di rivelare la loro relazione e di distruggere la sua famiglia e la sua carriera. Di fronte a questa prospettiva, Judah, dopo un tormentato dibattito interiore con la propria coscienza (rappresentata da flashback e dialoghi immaginari con la sua educazione ebraica ortodossa), prende una decisione estrema: organizzare l'omicidio di Dolores. Questo atto, apparentemente risolutivo, innesca una spirale di angoscia, senso di colpa e paranoia, ma anche, paradossalmente, una progressiva normalizzazione del male. Martin Landau, nell'interpretare Judah, offre una delle sue performance più memorabili, riuscendo a restituire la complessità di un uomo intrappolato tra la virtù apparente e il baratro morale. Il suo percorso è un vero e proprio studio sul tradimento e sulle sue conseguenze, non tanto legali quanto psicologiche e spirituali.

Parallelamente, la storia di Cliff (interpretato dallo stesso Allen, in una delle sue incarnazioni più nevrotiche e autoironiche) funge da contrappunto tragicomico. Il suo amore non ricambiato per la produttrice televisiva Halley Reed (Mia Farrow, musa e compagna dell'epoca) e la sua frustrazione artistica sono il lato più leggero, ma non meno doloroso, del film. Cliff è un uomo di principi, un intellettuale che crede ancora nella verità e nell'arte come strumenti di redenzione. Il suo documentario sul cognato Lester (Alan Alda, magnifico nella sua odiosa sicumera) è un'occasione per Allen di sferrare colpi feroci al mondo della televisione, dell'intrattenimento di massa e della sua superficialità. La sua ricerca di un senso, di una verità, si scontra costantemente con l'indifferenza del mondo e con la beffa del destino.

Il film è strutturato come un'indagine filosofica sulla moralità e sul libero arbitrio. Attraverso i dialoghi di Judah con il rabbino cieco Ben (Sam Waterston), Allen esplora il concetto di giustizia divina ed umana. Il rabbino, con la sua fede incrollabile e la sua cieca fiducia in un ordine morale universale, rappresenta la voce della tradizione ebraica, di una giustizia che non può essere elusa. Ma il film, con il suo finale amaramente realistico, sembra suggerire una visione più nichilista, più vicina a quella di Dostoevskij in "Delitto e Castigo" (pur senza il pentimento di Raskolnikov) o al pessimismo cosmico di Albert Camus. Cosa succede quando i crimini restano impuniti? Cosa accade quando la giustizia non si manifesta, e i malfattori prosperano? Allen ci sbatte in faccia una verità scomoda: l'universo è indifferente, e a volte, la sorte premia i misfatti. La regia di Allen è, come sempre, elegante e funzionale. Le inquadrature pulite, la fotografia di Sven Nykvist (collaboratore storico di Bergman, e la sua influenza è palpabile nel tono crepuscolare del film) che gioca con le luci e le ombre, creano un'atmosfera di sobria inquietudine. I dialoghi sono taglienti, brillanti, pieni di aforismi e battute fulminanti che rivelano la profondità intellettuale del regista. La musica, classica e spesso malinconica, funge da contrappunto emotivo, sottolineando la gravità degli eventi senza mai scadere nel melodramma.

Se gran parte della sua produzione precedente giocava con l'autoironia e la nevrosi come scudo contro l'angoscia esistenziale, qui lo scudo viene abbandonato. Allen affronta di petto la questione del male, della colpa e della punizione in un modo che non aveva mai fatto prima con tale serietà e profondità. La sua Halley, nel suo candore e nel suo pragmatismo, finisce per rappresentare la superficialità del mondo che non coglie la profondità del dramma. Un aneddoto interessante riguarda la genesi del film. Si dice che Allen abbia sviluppato l'idea di "Crimini e Misfatti" dopo una serie di conversazioni notturne con amici, discutendo proprio di etica, di filosofia e della possibilità che l'uomo possa commettere atti orribili e farla franca. Questa riflessione sulla giustizia e sull'impunità, lontana dalle risate borghesi, è maturata nel tempo, fino a confluire in questa sceneggiatura densa e complessa. Il film è, in questo senso, una summa delle ansie e delle riflessioni filosofiche che hanno sempre animato l'opera di Allen, ma qui espresse con una chiarezza e una brutalità senza precedenti.

Il contesto storico e culturale degli anni '80, con il suo edonismo rampante e la sua retorica del successo a tutti i costi, fornisce uno sfondo ideale per le riflessioni di Allen. La figura di Lester, il produttore televisivo di successo che incarna la superficialità e la vanità, è una critica feroce a un certo tipo di cultura mediatica. Il film interroga il sistema di valori di una società che sembra aver smarrito la bussola morale, dove l'apparenza conta più della sostanza e dove la ricchezza può comprare non solo il silenzio, ma anche la redenzione (o la sua illusione).

"Crimini e Misfatti" possiede la capacità di mescolare il dramma etico con la commedia amara. La sua intelligenza nella costruzione narrativa e la profondità delle sue riflessioni filosofiche, lo rendono un classico intramontabile, un tassello fondamentale nella filmografia di Woody Allen e un'opera che, ancora oggi, risuona con una inquietante attualità.

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