Doppio gioco
1949
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Regista
Dopo aver definito il genere con I gangsters (The Killers), Siodmak si riunisce con Burt Lancaster per creare un'opera ancora più cupa, un film dove la trappola non è il "colpo" (la rapina), ma la memoria stessa. L'incipit aereo, con la macchina da presa che plana su una Los Angeles notturna come un rapace che ha scelto la sua preda, per poi calare su un parcheggio buio, non è un'introduzione: è una sentenza. Ci dice che i protagonisti non entrano nella storia; ci sono già dentro, e noi stiamo solo assistendo all'inevitabile chiusura del cerchio.
Il film è la cronaca di una ricaduta. È la tragedia dell'uomo che sa di sbagliare e lo fa lo stesso. Steve Thompson (Burt Lancaster) non è il classico sucker del noir; o meglio, lo è, ma con piena consapevolezza. Lancaster, che ne I gangsters era il "Sueco", una vittima passiva in attesa della morte, qui è un agente attivo della propria rovina. È un uomo che torna. Torna nella sua città, torna dalla sua famiglia, torna al suo onesto lavoro di autista di furgoni portavalori. Ma Siodmak ci mostra che questa "normalità" (il sole della California, la routine) è solo una fragile facciata. L'onestà di Steve non è una virtù; è un guscio sottile che aspetta solo di essere rotto dalla sua vera, unica, incurabile malattia: l'ossessione per Anna Dundee (Yvonne De Carlo). La sua non è una scelta, è una condanna. È un personaggio dostoevskiano intrappolato in un B-movie, un uomo che ha bisogno della sua distruzione per sentirsi vivo.
E che distruzione. Yvonne De Carlo, spesso relegata a ruoli esotici o da "regina del Technicolor", offre qui una performance che ridefinisce la femme fatale. La sua Anna non è la calcolatrice glaciale di Barbara Stanwyck in La fiamma del peccato. Siodmak e De Carlo la dipingono con sfumature di un'ambiguità quasi insopportabile. È una vittima o una carnefice? È una donna che cerca disperatamente di sopravvivere in un mondo di uomini predatori, o è lei la predatrice suprema? Il film, brillantemente, si rifiuta di scegliere. Il momento in cui Steve la ritrova, in un nightclub (il "Round-Up"), è la quintessenza della mise-en-scène di Siodmak. L'aria è densa di fumo, il rumore è assordante. Steve la cerca e la macchina da presa la trova: sta ballando una rhumba febbrile. Non è una danza, è un rituale. È l'incarnazione del desiderio primordiale, del caos, di tutto ciò che la vita "onesta" di Steve non è. È l'esca perfetta, e Steve, il pesce, ci si lancia sapendo che all'amo è attaccato il veleno.
La loro relazione è un "doppio gioco" di auto-inganni. Lui sa che lei è sposata con il gangster Slim Dundee (un Dan Duryea al suo apice di viscidume sorridente), eppure non può starle lontano. Lei sa che lui è la sua unica via di fuga, eppure non può (o non vuole) tagliare i ponti con il marito. È un folie à deux che può avere un solo sbocco: la collisione. Ed è Steve a premere l'acceleratore, proponendo la rapina al suo stesso furgone portavalori. Questo non è un piano criminale; è un suicidio per procura. È l'unico modo che Steve concepisce per "comprare" Anna, per strapparla a Slim usando l'unica lingua che il loro mondo capisce: il denaro. Ma nel noir, il denaro non compra mai la libertà; compra solo un biglietto più veloce per l'obitorio.
Siodmak, con le sue radici profondamente piantate nell'Espressionismo tedesco dell'UFA, orchestra il film come un incubo febbrile. La rapina stessa è un capolavoro di brutalità e caos. Girata in pieno giorno (una mossa anti-noir geniale), utilizza il fumo dei candelotti fumogeni per trasformare la strada assolata in un campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale, un inferno di ombre e figure spettrali. Ma il vero capolavoro espressionista è la sequenza dell'ospedale. Steve, ferito e intrappolato in un letto, diventa la cavia della paranoia. Siodmak deforma lo spazio: la macchina da presa assume angolazioni oblique, le ombre dei ventilatori a soffitto e delle finestre si allungano sulle pareti come sbarre di una prigione psicologica. Steve è immobilizzato, incapace di agire, mentre le pareti della sua trappola si stringono. È Il gabinetto del dottor Caligari reimmaginato come un dramma post-bellico: il mondo non è più "reale", è solo la proiezione della sua colpa e della sua paura.
L'inevitabile finale chiude ogni porta. La fuga nella casa sulla spiaggia, avvolta nella nebbia (altro archetipo del noir che Siodmak usa come un sudario), non è una speranza, è solo l'ultima stazione della Via Crucis. L'ultimo "doppio gioco" è quello di Anna, che rivela la sua vera natura opportunista solo quando la pistola di Slim è puntata. Ma anche Slim è tradito. Il "Criss Cross" del titolo originale non è solo un incrocio di sguardi o di destini; è una catena di tradimenti reciproci, un'equazione a somma zero dove tutti perdono. Steve, che per tutto il film ha cercato di possedere Anna, ottiene il suo desiderio nell'unico modo che il Fato del noir concede: un abbraccio mortale, un'unione nel nulla. Siodmak non offre catarsi, non c'è redenzione, non c'è lezione morale se non quella che il passato non è mai passato, e che la fiamma che cerchiamo per scaldarci è, quasi sempre, quella che ci incenerirà.
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