Crocevia della morte
1990
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Registi
Un cappello. Un cappello di feltro scuro che danza nel vento, sollevato da una folata improvvisa tra le foglie autunnali di una foresta che sembra uscita da una ballata irlandese sulla morte e la perdita. L'immagine d'apertura di Crocevia della morte non è un semplice vezzo stilistico, ma la dichiarazione d'intenti di un'opera che si configura come un trattato di logica formale applicato al caos morale del gangster movie. Il cappello, per Tom Reagan (un Gabriel Byrne che scolpisce il suo personaggio nel ghiaccio dell'apatia e nel fuoco di un'intelligenza febbrile), non è un accessorio: è l'armatura, il simbolo del controllo, l'ultimo baluardo di un'identità costruita a tavolino. Quando vola via, Tom è nudo, esposto alle correnti imprevedibili del caso e del tradimento che lui stesso ha messo in moto.
Nel 1990, i fratelli Coen non erano ancora i sommi sacerdoti del cinema americano che conosciamo oggi, ma con questo loro terzo lungometraggio gettarono le fondamenta del loro intero universo narrativo. Se Blood Simple era un'esercitazione noir brutale e viscerale e Arizona Junior una farsa surreale e funambolica, Crocevia della morte è il punto di sintesi, un distillato purissimo della loro poetica. È un film che vive in un tempo e in uno spazio sospesi, un'era del Proibizionismo sognata, più letteraria che storica, dove la polvere da sparo si mescola all'odore di whisky e di pagine ingiallite. Il DNA del film è puro Dashiell Hammett, non tanto nella trama – che pure saccheggia a piene mani da capolavori come Piombo e l'agente segreto (Red Harvest) e, soprattutto, La chiave di vetro (The Glass Key) – quanto nello spirito. Come il Continental Op di Hammett, Tom Reagan è un operatore del caos, un uomo la cui unica bussola è un codice etico incomprensibile agli altri, forse persino a se stesso. Non è un eroe, né un antieroe. È un problema logico che cerca la sua soluzione più elegante, anche se questa comporta la distruzione di tutto ciò che lo circonda.
La pellicola si svolge come una partita a scacchi giocata su una scacchiera di fango e sangue, dove i pezzi sono boss irlandesi sentimentali (un monumentale Albert Finney nel ruolo di Leo O'Bannon), mafiosi italiani iracondi e ossessionati da un'improbabile "etica" (un Jon Polito vulcanico e indimenticabile nel ruolo di Johnny Caspar), e una femme fatale, Verna (Marcia Gay Harden), che è meno "fatale" della tradizione e più disperatamente pragmatica. Al centro di tutto, Tom, il giocatore. La sua lealtà è un'equazione a più incognite. Tradisce Leo per servire Caspar, o tradisce Caspar per salvare Leo? La domanda è mal posta. Tom non serve nessuno se non la coerenza del proprio disegno. È un personaggio quasi dostoevskiano, un Raskol'nikov del gangsterismo che crede di potersi elevare al di sopra della morale comune attraverso la pura forza dell'intelletto, finendo per scoprire un vuoto assordante al centro del proprio essere.
La vera genialità del film, tuttavia, risiede nel suo linguaggio. I Coen non scrivono dialoghi, compongono partiture. Il gergo dei gangster, il "patois" di quest'anonima città del Midwest, diventa una forma di poesia astratta. Frasi come "What's the rumpus?" (Qual è il problema?) o i deliranti monologhi di Caspar sulla correttezza e l'etica diventano ritornelli, formule magiche che definiscono i confini di un mondo chiuso e autoreferenziale. È un'operazione metalinguistica: i personaggi non parlano per comunicare, ma per affermare la propria posizione nel dramma, per recitare una parte che conoscono a memoria. È il linguaggio che crea la realtà, non il contrario. In questo, i Coen anticipano di anni la sensibilità postmoderna di Tarantino, ma con un rigore e una freddezza che il regista di Pulp Fiction raramente possiede. Se Tarantino è punk rock, i Coen qui sono musica da camera, una fuga complessa e malinconica.
E poi c'è la foresta. Miller's Crossing non è solo un luogo fisico, è uno spazio mitico, un'arena primordiale dove le regole della città vengono sospese. È qui che il film raggiunge il suo apice filosofico ed emotivo nella scena che è, a tutti gli effetti, il suo cuore pulsante. Tom porta Bernie Bernbaum (un John Turturro superlativo nella sua abietta disperazione) nel bosco per giustiziarlo. La supplica di Bernie, "Look in your heart, Tom... Look in your heart", è un appello lanciato nel vuoto. È la richiesta irrazionale di empatia a un uomo che vive esclusivamente nella sua testa. Il cuore, per Tom, è un muscolo inaffidabile, una variabile che potrebbe compromettere l'intera equazione. La decisione che prenderà in quel momento, e le sue successive, strazianti conseguenze, non sono il frutto di un calcolo morale, ma di una necessità strategica. È quasi un sacrificio biblico alla rovescia, un test di fede in un mondo senza Dio, dove l'unico assoluto è la sopravvivenza del proprio schema mentale.
Visivamente, il film è un capolavoro di estetica crepuscolare. La fotografia di Barry Sonnenfeld (che di lì a poco sarebbe diventato un regista di successo) avvolge ogni scena in tonalità calde e autunnali, colori del tabacco, del legno e delle foglie morte. C'è un senso di decadenza ineluttabile, di fine di un'era. Gli interni, curati da Dennis Gassner, sono labirinti di corridoi bui, uffici fumosi e club clandestini che sembrano già rovine di un impero. La colonna sonora di Carter Burwell, dominata da un tema struggente di ispirazione folk irlandese, non commenta l'azione ma ne canta l'elegia funebre fin dall'inizio. È la musica per un mondo di fantasmi, di uomini che si aggrappano a codici d'onore che non hanno più alcun significato.
Inserito nel suo contesto, Crocevia della morte del 1990 è un'anomalia. Arriva alla fine di un decennio dominato dall'eccesso e dall'edonismo reaganiano, e si presenta come un'opera di una sobrietà e di una complessità intellettuale quasi aliene. Mentre il cinema gangsteristico stava per essere ridefinito da Scorsese con Quei bravi ragazzi, i Coen guardavano indietro, non per nostalgia, ma per un'autopsia. Decostruiscono il genere dall'interno, ne espongono i meccanismi, ne rivelano l'artificio. Non sono interessati al realismo sociologico del crimine organizzato, ma all'archetipo, alla maschera. Il film è una mise en abyme del narrare: una storia su un uomo che racconta storie (bugie, doppi giochi) per sopravvivere, all'interno di un genere cinematografico che è esso stesso una forma di narrazione codificata.
La vittoria finale di Tom Reagan è forse una delle più amare della storia del cinema. Ha riordinato il caos, ha eliminato le variabili impazzite, ha completato il suo puzzle. Ma il risultato è il deserto. L'ultima scena lo vede osservare Verna che si allontana, mentre si sistema in testa quel cappello che era riuscito a recuperare. L'armatura è di nuovo al suo posto, ma a quale prezzo? Ha vinto la partita, ma ha perso ogni connessione umana, ammesso che ne abbia mai avuta una. Resta solo, un'isola di intelletto in un oceano di sentimenti che ha prosciugato. Crocevia della morte non è semplicemente un grande gangster movie. È una meditazione glaciale e brillante sulla solitudine dell'intelligenza, un poema sinfonico sulla vacuità del controllo, un capolavoro che, come il cappello di Tom, continua a fluttuare nell'aria, inafferrabile e perfetto.
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