
Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l'Amante
1989
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Regista
Uno dei titoli più brutti mai dati ad un film e non c’entra questa volta la traduzione del distributore. Un'intestazione che, nella sua prosaica linearità, quasi tradisce la vertiginosa complessità visiva e tematica che Greenaway ci riserva, come se l'immediatezza nominale volesse dissimulare la sontuosa stratificazione di significanti e la sua intrinseca natura di opera d'arte totale.
Eppure Peter Greenaway, a dispetto di questo, ci regala un film splendido, saturo di metafore, colori cangianti, personaggi epici, cucine dionisiache e pranzi luculliani. È un'esperienza sensoriale totalizzante, un'immersione in un universo dove ogni dettaglio è carico di un simbolismo quasi esoterico, un palcoscenico per un'opera che trascende il racconto per farsi archetipo, una moderna parabola sulla barbarie e sulla civiltà, sulla vendetta e sulla redenzione.
Il cinema di Greenaway è un incedere di suggestioni visive come struggenti folgorazioni, un turbinio cromatico che colpisce come un maglio l’attenzione di chi guarda e si converte istantaneamente in emozione, in linguaggio. Si manifesta qui, con una potenza rara, la sua profonda matrice pittorica; non è un caso che il regista abbia iniziato la sua carriera come artista visivo, e Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l'Amante è forse la sua più ambiziosa cattedrale cromatica. Ogni inquadratura è una tela meticolosamente composta, un'ode alla pittura fiamminga e olandese del XVII secolo, in particolare ai banchetti e alle nature morte che il regista ama citare e reinterpretare. I riferimenti a Vermeer, Rembrandt o, più esplicitamente, a Frans Hals, non sono meri abbellimenti, ma chiavi di lettura per decifrare l'opulenza, la decadenza e la brutalità sottese all'estetica. Greenaway crea ambienti dove lo spazio non è solo scenografia, ma un personaggio muto, un contenitore che riflette e amplifica le psicologie e i destini dei suoi occupanti, una tradizione che affonda le radici nel teatro barocco e nelle allegorie morali.
Ogni scena è costruita per comunicare senza necessità di parole, così in una sequenza vediamo i personaggi aggirarsi dentro un bagno rosso scarlatto, per poi scoprire che il bagno è in realtà di un bianco abbacinante, e la passione della scena precedente si quieta in riflessione. Questo uso camaleontico del colore non è solo scenografico, ma narrativo e psicologico: le tinte mutano non appena i personaggi attraversano le soglie, simboleggiando i loro stati d'animo, le loro azioni e le zone morali che stanno occupando. Dal rosso primordiale della sala da pranzo, simbolo di lussuria e violenza incombente, al verde della cucina, regno del disgusto e della preparazione, fino al blu della stanza da letto che evoca intimità e melanconia, e al bianco accecante del bagno, che purifica o svela la verità. È una progressione cromatica che accompagna il viaggio interiore ed esteriore dei personaggi, un labirinto sensoriale dove il colore diviene un codice di condotta, un presagio di ciò che verrà.
La cucina è ricolma di oggetti, cibi, stoviglie, operai, cuochi, con in sottofondo la meravigliosa voce bianca del piccolo sguattero che canta il Miserere per tutti coloro che ci lavorano. Un coro angelico che contrasta stridentemente con la carnalità e la dissolutezza che pervadono il resto del ristorante, quasi una voce della coscienza o un lamento per la corruzione dell'anima umana che si consuma tra quelle mura. Il cibo stesso, da simbolo di piacere e abbondanza, si trasforma gradualmente in veicolo di degrado, di violenza e, infine, di vendetta, in un'esplorazione del tabù e del cannibalismo che ricorda le atrocità del conte Ugolino di dantesca memoria, un'allegoria della fame non solo fisica ma di potere e di giustizia.
Il salone del ristorante è immerso in un rosso penetrante con un immenso quadro di Frans Hals, il Banchetto degli Ufficiali, ad incombere sui commensali. Un'opera che Greenaway stesso ha definito come una delle sue ispirazioni primarie, non solo per la composizione ma per la rappresentazione di una società maschile, opulenta e autoreferenziale, esattamente come quella incarnata dal boss Albert Spica, che si erge a capo di un suo grottesco banchetto della barbarie, scimmiottando i riti dell'alta società mentre ne svela la putredine sottostante.
La storia è prima di tutto una storia d’amore clandestina tra due clienti di un ristorante: un piccolo bibliotecario e la moglie di un boss della malavita, un uomo di una volgarità e di una rudezza senza pari. Michael Gambon offre una performance memorabile nei panni di Albert Spica, un personaggio che incarna la tirannia dell'ignoranza e della prepotenza. La sua gluttonia non è solo fisica, ma culturale ed esistenziale; divora tutto, dal cibo ai libri, dalle persone all'arte, con la stessa insaziabile e distruttiva brutalità. È il Barbaro che irrompe nella sofisticazione, il caos che assoggetta l'ordine, e il suo banchetto è un'esibizione della sua vacua, ma potente, supremazia.
Tutti e tre sono clienti abituali del ristorante e godono, ciascuno in maniera diversa, delle prelibatezze servite dal cuoco e proprietario. La relazione tra Georgina (Helen Mirren, in un ruolo che ha cementato la sua statura di attrice audace e complessa) e Michael (Alan Howard, incarnazione della fragilità intellettuale) è un flebile tentativo di riscatto, un fiore che sboccia nell'immondezza della volgarità. È una storia di evasione, di ricerca di bellezza e conoscenza in un mondo dominato dalla forza bruta, una silenziosa ribellione contro l'oppressione di un uomo che è metafora di un'intera società.
La storia d’amore, iniziata furtivamente nel bagno del ristorante, sarà brutalmente interrotta dal boss tradito, che farà uccidere l’amante della moglie cacciandogli in bocca pagine di libri strappate. Un gesto di distruzione non solo fisica ma simbolica, l'annientamento della conoscenza e della raffinatezza da parte della barbarie, che sigilla il destino di Michael come martire dell'intelletto. Questo atto di violenza, tra i più scioccanti della filmografia di Greenaway, prepara il terreno per l'inevitabile catarsi, un'esplosione di dolore e determinazione che trasformerà la vittima nella più impietosa delle giustiziere.
La moglie preparerà la sua feroce vendetta facendo cucinare il cadavere dell’amante al cuoco e servendolo da mangiare all'assassino. Un atto di vendetta estremo che richiama le tragedie greche più cruente o i miti di Crono che divora i suoi figli, spingendo il concetto di giustizia poetica al limite dell'orrore più viscerale. È l'ultima, scioccante portata di un banchetto di crudeltà e liberazione, dove il corpo del sapere profanato si trasforma nel mezzo ultimo della punizione. Georgina si eleva da vittima silente a figura titanica, orchestrando una retribuzione che è al contempo atto d'amore supremo e atto di spietata giustizia. La sua trasformazione, da oggetto passivo della violenza a soggetto attivo della vendetta, è un commento potente sulla resilienza femminile e sulla capacità umana di superare il dolore con un'ineluttabile ferocia, superando i limiti del decoro e della moralità convenzionale per affermare una forma di giustizia primordiale.
Un’opera di una raffinatezza stilistica davvero ineguagliata: come spesso accade per il cinema di Greenaway, si ha l'impressione di assistere alla costruzione di un imponente Templio iconografico, un edificio di una tale perfezione da rimanere basiti ad osservarlo per ore, inebetiti dalla sua bellezza. Ma al di là della pura estetica, il film è una feroce e scomoda disamina della società, un'allegoria della lotta tra l'arte e la brutalità, tra l'intelletto e l'istinto più vile. La sua audacia formale e tematica lo ha reso un classico cult, un'opera che, pur dividendo, non ha mai cessato di provocare e affascinare. Il Cuoco, il Ladro, sua Moglie e l'Amante non è solo un film, ma un'esperienza catartica, un rito pagano di bellezza e orrore che si imprime indelebilmente nella memoria dello spettatore, lasciando un retrogusto amaro e sublime di carne, di sangue e di ribellione.
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