Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Cupo tramonto

1937

Vota questo film

Media: 3.50 / 5

(2 voti)

Un cadavere galleggia in una piscina. Un narratore, la cui voce cinica e disillusa ci giunge dall'oltretomba, inizia a dipanare il filo di una storia che è già terminata, un'autopsia spietata non solo della sua stessa fine, ma di un'intera mitologia: Hollywood. L'incipit di Cupo tramonto di Billy Wilder non è semplicemente un espediente noir; è una dichiarazione d'intenti, un'epigrafe posta all'inizio del racconto. Siamo già nel regno dei morti, e il nostro Virgilio, lo sceneggiatore fallito Joe Gillis (un William Holden mai così perfetto nel suo ruolo di gigolò esistenziale), sta per guidarci attraverso un inferno pavimentato di sogni infranti e celluloide in decomposizione.

Il film, a una prima, superficiale lettura, si maschera da noir, con la sua narrazione in flashback, il suo protagonista braccato dai debiti e il suo Fato ineluttabile. Ma Wilder, insieme ai suoi co-sceneggiatori Charles Brackett e D.M. Marshman Jr., scava molto più a fondo, trasfigurando il genere in un racconto gotico americano. La villa di Norma Desmond su Sunset Boulevard non è una semplice dimora di lusso; è la Casa degli Usher di Edgar Allan Poe, un mausoleo opulento e decrepito che rispecchia la psiche della sua abitante. È un luogo fuori dal tempo, dove le tende pesanti bloccano la luce del sole californiano, l'aria è stantia e carica del profumo di antichi trionfi e il tempo stesso si è fermato all'epoca del cinema muto. In questo maniero, Norma Desmond non è semplicemente una ex-diva; è una creatura vampirica, una Miss Havisham dickensiana che, invece di indossare un abito da sposa in disfacimento, proietta all'infinito i fantasmi del suo passato su uno schermo privato, nutrendosi della linfa vitale del giovane Joe per alimentare l'illusione di un ritorno che non avverrà mai.

La genialità più abissale e meta-testuale di Cupo tramonto risiede, ovviamente, nel suo casting. Scegliere Gloria Swanson per interpretare Norma Desmond è un colpo di pistola che fa vibrare l'intero edificio narrativo. Swanson era una delle più grandi stelle dell'era del muto, una vera e propria regina della Paramount la cui fama era stata eclissata dall'avvento del sonoro. Wilder non si limita a sfruttare la sua immagine; orchestra una complessa sovrapposizione tra attrice e personaggio, creando un cortocircuito vertiginoso. Quando Norma proietta uno dei suoi vecchi film per Joe, quello che vediamo sullo schermo è un vero film di Gloria Swanson, Queen Kelly (1929), diretto da un altro titano caduto, Erich von Stroheim. E qui il gioco di specchi diventa quasi insostenibile: a interpretare Max von Mayerling, il maggiordomo, ex-regista e primo marito di Norma, colui che ne alimenta la follia scrivendole false lettere di ammiratori, è proprio Erich von Stroheim. Un regista leggendario, mutilato dal sistema degli Studios, ridotto a interpretare il ruolo di un regista fallito che serve la sua ex-stella e musa. La scena in cui Max, con orgoglio ferito, rivela a Joe di essere stato lui a scoprire Norma è uno dei momenti più strazianti e stratificati della storia del cinema. È la realtà che sanguina nella finzione, conferendo al film un'aura di autenticità tragica che nessuna sceneggiatura, da sola, avrebbe potuto raggiungere.

Wilder, fuggito dalla Germania nazista e intriso della lezione dell'Espressionismo tedesco, orchestra la discesa agli inferi di Norma con una perizia visiva che deve tanto a Murnau quanto a Fritz Lang. La fotografia di John F. Seitz è un capolavoro di ombre e claustrofobia. La luce fatica a penetrare nella villa, e quando lo fa, come nella scena della proiezione, illumina solo la polvere che danza nel fascio del proiettore, metafora perfetta delle memorie evanescenti e corrotte di Norma. Gli interni sono un trionfo del kitsch barocco, un accumulo di oggetti, fotografie e tessuti leopardati che soffocano lo spazio e i personaggi. Norma stessa è una maschera grottesca, un relitto del passato la cui recitazione enfatica, quasi da pantomima, non è un difetto dell'interpretazione della Swanson, ma la rappresentazione perfetta di uno stile recitativo obsoleto, inadatto al nuovo mondo del sonoro e del realismo. È un fantasma che infesta un mondo che non le appartiene più.

Inserito nel suo contesto storico, il film è una spietata critica che Hollywood rivolge a se stessa, proprio nel momento in cui la sua Età dell'Oro sta per tramontare. Uscito nel 1950, Cupo tramonto cattura il panico di un'industria che vede il vecchio sistema degli Studios scricchiolare sotto il peso delle leggi anti-trust e la minaccia nascente della televisione, il "piccolo mostro" che avrebbe confinato il cinema nelle case. Il film è la cronaca di una transizione brutale, quella dal muto al sonoro, che viene usata come allegoria di ogni cambiamento tecnologico e culturale che lascia dietro di sé una scia di vittime. La famosa battuta di Norma, "Io sono ancora grande. È il cinema che è diventato piccolo", non è solo l'affermazione delirante di una donna pazza; è un grido di battaglia, un lamento e una tesi estetica. Per Norma, il cinema era volti, espressioni, un linguaggio universale di pura immagine. L'arrivo del sonoro, del "dialogo", ha rimpicciolito quell'arte, l'ha resa prosaica. Wilder, maestro di dialoghi sferzanti, mette in bocca al suo personaggio la più potente difesa del cinema delle origini, creando un paradosso affascinante.

La relazione tra Joe e Norma è una simbiosi letale, un contratto faustiano in cui è difficile stabilire chi sia il vero parassita. Joe vende il suo talento e la sua giovinezza in cambio di abiti di vigogna e di una sicurezza economica che il suo lavoro di sceneggiatore non può garantirgli. Norma compra la sua compagnia, usandolo come pubblico, amante e co-sceneggiatore del suo ultimo, folle progetto: un'improponibile Salomè che dovrebbe segnare il suo ritorno. Ma in questo scambio, entrambi vengono divorati. Joe perde la sua integrità, la sua relazione con la giovane e speranzosa Betty Schaefer (simbolo della nuova Hollywood, pragmatica e collaborativa) e, infine, la vita. Norma si spinge sempre più a fondo in un delirio da cui non c'è ritorno. La loro dinamica anticipa di decenni le analisi sulla tossicità delle relazioni di potere e sulla mercificazione dei corpi e delle anime, un tema che Hollywood non ha mai smesso di esplorare.

E poi, il finale. Un finale che entra di diritto nell'empireo delle sequenze più iconiche e terrificanti di sempre. Dopo aver ucciso Joe, Norma non fugge, non si dispera. Scambia le macchine da presa dei cinegiornali accorsi sul luogo del delitto per le cineprese di Cecil B. DeMille. La sua follia le concede, infine, ciò che la realtà le aveva negato: l'ultimo, grande ruolo della sua vita. La sua discesa dalle scale, con gli occhi sbarrati e un trucco spettrale, non è una resa, ma un'apoteosi. Trasforma la scena del crimine nel suo set. Quando si avvicina alla macchina da presa, rompendo la quarta parete e guardando direttamente noi, il pubblico, mormorando "Eccomi, DeMille. Sono pronta per il mio primo piano", non stiamo assistendo solo alla fine di un film. Stiamo assistendo al collasso totale tra realtà e rappresentazione. Wilder ci rende complici, trasformandoci nel pubblico adorante e voyeuristico che ha creato e poi abbandonato mostri come Norma Desmond. È un atto d'accusa finale, non solo verso l'industria, ma verso la natura stessa del nostro sguardo. Cupo tramonto è più di un capolavoro; è il Vangelo apocrifo di Hollywood, un testo sacro e blasfemo che ne rivela la natura di fabbrica di sogni e, al tempo stesso, di mattatoio di anime. Un serpente che, magnificamente, si morde la coda in un eterno, crepuscolare capolavoro.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7

Commenti

Loading comments...