Cure
1997
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Regista
Un malessere serpeggia nelle fondamenta del cinema di Kiyoshi Kurosawa, un'umidità che impregna le pareti scrostate e si condensa in gocce fredde sulla nuca dello spettatore. E se si dovesse trovare il ground zero di questa pandemia dell'anima, l'epicentro sismico che avrebbe propagato le sue onde per tutto il J-horror a venire e oltre, quello sarebbe senza dubbio Cure (1997). Presentato al mondo a ridosso del nuovo millennio, in un Giappone ancora scosso dal trauma dell'attentato con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo e impantanato nelle sabbie mobili della sua "decade perduta", il film di Kurosawa opera un'autopsia spietata non tanto del corpo sociale, quanto della sua stessa coscienza.
L'impalcatura è quella, apparentemente rassicurante, del thriller procedurale. Un detective, Kenichi Takabe (un monumentale Kōji Yakusho, maschera di una stanchezza ancestrale), indaga su una serie di omicidi grotteschi e inspiegabili. Le vittime vengono ritrovate con una "X" incisa a fondo nella gola e nel petto, un marchio brutale che sembra la firma di un unico, folle artista. Il problema è che per ogni delitto c'è un colpevole diverso, persone comuni – un insegnante, un poliziotto, una dottoressa – che confessano candidamente, ma non ricordano nulla del loro movente, come se avessero agito in uno stato di sonnambulismo esiziale. L'indagine di Takabe, che potrebbe riecheggiare le atmosfere livide del Se7en di Fincher uscito solo due anni prima, devia quasi subito dal sentiero del "whodunit". Qui, il colpevole materiale è irrilevante. La vera domanda, quella che scava come un tarlo, non è "chi?", ma "perché?". O, più terribilmente, "cosa?".
La risposta, o meglio, l'abisso che si spalanca al posto di una risposta, ha il volto di Kunio Mamiya (Masato Hagiwara), un giovane affetto da amnesia retrograda che vaga come un fantasma ai margini delle scene del crimine. Mamiya non è un Hannibal Lecter, non possiede una carismatica e luciferina intelligenza. È il suo esatto opposto: un vuoto pneumatico, un buco nero di personalità che assorbe e riflette l'oscurità latente di chiunque incroci il suo cammino. Le sue conversazioni sono trappole semantiche, un loop di domande semplici e disarmanti ("Chi sei tu? Parlami di te") che, come un mantra inverso, svuotano l'interlocutore di ogni certezza, smontando pezzo per pezzo l'impalcatura sociale che chiamiamo "identità". Mamiya non plagia, non comanda; egli attiva. È un catalizzatore, un virus memetico che non inietta un'idea, ma libera un impulso primordiale già presente, il "rimosso" che ribolle sotto la superficie di una società iper-strutturata e repressiva.
In questo, Kurosawa si rivela un erede inaspettato non tanto dei maestri del brivido, quanto di Michelangelo Antonioni. Gli spazi di Cure – appartamenti spogli, uffici squallidi, corridoi di ospedale dalle luci al neon malate, spiagge industriali desolate – sono paesaggi dell'anima che trasudano la stessa incomunicabilità, la stessa alienazione che affliggeva i personaggi de L'Eclisse o Il Deserto Rosso. La violenza non è mai spettacolarizzata; spesso accade fuori campo o viene mostrata con una distanza clinica, agghiacciante. L'orrore non è nel gesto, ma nella sua normalizzazione, nella sua eziologia metafisica. La macchina da presa di Kurosawa, con le sue inquadrature fisse e i suoi long take pazienti, non ci fa entrare nella mente degli assassini, ma ci costringe a osservare il processo di disfacimento dall'esterno, come entomologi di fronte a un fenomeno inspiegabile.
Il parallelismo più audace, tuttavia, è forse quello con la letteratura di H.P. Lovecraft. Mamiya funziona come un testo proibito, un Necronomicon in carne e ossa. Incontrarlo, parlargli, equivale a leggere una verità cosmica che la mente umana non è strutturata per contenere. L'orrore lovecraftiano non risiede nel mostro tentacolare, ma nell'idea che la realtà che percepiamo sia un sottile velo che nasconde un caos indicibile. Mamiya è l'agente che squarcia quel velo. E la "cura" del titolo è una beffa atroce: non è una guarigione, ma la liberazione definitiva dal fardello dell'io, dalla prigione della coscienza individuale, per regredire a uno stato pre-sociale, puramente istintivo e omicida. È una sorta di nichilismo Zen portato alle sue estreme e più terrificanti conseguenze.
Il vero campo di battaglia del film è la psiche del detective Takabe. Uomo apparentemente solido, è già un'anima in frantumi. La sua vita privata è un inferno silenzioso, scandito dalla cura della moglie (Anna Nakagawa), affetta da una grave malattia mentale che ne erode la memoria e la percezione della realtà. La condizione della moglie non è un semplice sottotesto drammatico; è la sineddoche del collasso che Takabe teme e che Mamiya accelera. Le loro conversazioni sono duelli psicologici che ricordano quelli tra Raskol'nikov e il giudice Porfirij Petrovič in Delitto e castigo, ma con una posta in gioco ancora più alta: non la colpa, ma l'esistenza stessa. Kōji Yakusho è magistrale nel mostrare il lento, inesorabile logoramento di un uomo che, per capire il vuoto, deve lasciarsi svuotare a sua volta. La sua rabbia, la sua frustrazione, sono gli ultimi baluardi di un sé che si sta dissolvendo.
Kurosawa orchestra questo requiem per la ragione con una precisione formale sbalorditiva, attingendo alla lezione del mesmerismo ottocentesco. L'ipnosi di Mamiya non ha nulla di teatrale; è un processo quasi banale, innescato dal suono ritmico di un accendino, dal fluire dell'acqua da un bicchiere, dal ronzio di un televisore. Sono i suoni ambientali della modernità, i ritmi che cullano la nostra quotidianità, a diventare le armi di questa guerra silenziosa. La vera minaccia, suggerisce Kurosawa, non viene dall'esterno, dal mostruoso Altro, ma è già dentro di noi, annidata nelle pieghe della routine, in attesa del giusto trigger per manifestarsi.
Il finale, sospeso in un'ambiguità che gela il sangue, non offre catarsi né risoluzione. Lascia lo spettatore con la sensazione strisciante che il contagio non sia stato fermato, ma abbia semplicemente cambiato ospite. La malattia si è evoluta, è diventata endemica. Cure trascende i confini del suo genere per diventare un trattato filosofico in forma di film dell'orrore. È un'opera che, come il suo enigmatico antagonista, pone una domanda semplice e terribile: una volta che hai guardato nell'abisso dell'assenza di significato, come puoi tornare indietro e fingere che la solida terra sotto i tuoi piedi non sia, in realtà, solo un sottile strato di ghiaccio su un oceano di nulla? La risposta, che Kurosawa ci lascia intuire, è che non si può. La conoscenza, una volta acquisita, è incurabile.
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