Da qui all'Eternità
1953
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Regista
In un'epoca in cui Hollywood era il crogiolo di miti e contro-miti, Da qui all'eternità si erse non solo come un colosso al botteghino, ma come una pietra miliare che consegnò Fred Zinnemann all'Olimpo dei grandi maestri, suggellando la sua consacrazione con l'inarrivabile trionfo di ben otto Premi Oscar. Una vittoria che, all'epoca, era un'affermazione quasi senza precedenti del suo inconfondibile stile, fatto di una meticolosa attenzione al realismo psicologico e a una narrazione che, pur epica, non perdeva mai di vista la dimensione squisitamente umana dei suoi protagonisti.
Il film dispiega la sua complessa trama nelle settimane che precedono il fatale attacco giapponese a Pearl Harbor, rivelando non tanto una cronaca bellica, quanto un affresco corale dell'America alla vigilia della sua più grande tragedia e della sua definitiva entrata nella Seconda Guerra Mondiale. È una finestra drammatica sull'esistenza di alcuni soldati di stanza a Schofield Barracks, dove la rigidità soffocante della vita militare si scontra prepotentemente con il desiderio insopprimibile di libertà individuale e l'imperativo, spesso proibito, dell'amore. Ogni arco narrativo è intessuto con un filo di passione, sia essa carnalmente impetuosa o disperatamente romantica, che funge da controcanto alla disciplina ferrea e al senso di attesa che permea l'aria.
L'acuta sensibilità di Zinnemann si manifesta nella maniera in cui ogni personaggio viene scandagliato con chirurgica precisione. Non si tratta di eroi senza macchia, ma di esseri umani fatti di fragilità e vizi, di debolezze intrinseche che li rendono archetipi universali. Burt Lancaster, nel ruolo del sergente Warden, incarna la virilità tormentata, l'uomo di dovere dilaniato tra la cieca obbedienza all'istituzione e un'ardente passione proibita per una Deborah Kerr di sublime, gelida bellezza, la cui Karen Holmes è un'icona di donna prigioniera della propria insoddisfazione, capace di una vulnerabilità disarmante. La loro leggendaria scena d'amore sulla spiaggia, bagnati dalle onde, divenne subito un'immagine iconica del cinema, trasgressione e desiderio condensati in un abbraccio che sfidava tanto la morale dell'epoca quanto le convenzioni cinematografiche.
Ma è Montgomery Clift, con la sua disarmante fragilità e l'integrità inflessibile del soldato Prewitt, a consegnarci un ritratto indimenticabile dell'individuo schiacciato dalla prepotenza del sistema. Il suo Prewitt, bugliere dal talento cristallino e pugile dal carattere indomabile ma non violento, è un 'perdente' morale la cui purezza è condannata da un mondo che non perdona l'onestà e l'intransigenza. La sua performance, sottile e straziante, anticipava i toni del malessere esistenziale che avrebbero caratterizzato il cinema e la letteratura successivi. E non si può tacere di Frank Sinatra, la cui rinascita artistica grazie al ruolo del ribelle e sfortunato Maggio è leggenda, una performance che gli valse un meritatissimo Oscar e lo consacrò come attore drammatico di rara intensità, capace di rendere tangibile la disperazione di un animo troppo grande per le catene militari.
Questo complesso intreccio di passioni, soprusi e lealtà tradite, pur ambientato in un contesto di imminente tragedia nazionale, eleva il film a uno strumento di profonda comprensione dello stato d'animo di una nazione durante la sua più grande sconfitta militare e il successivo risveglio. Lungi dal limitarsi a un mero dramma di guerra, Da qui all'eternità è una riflessione esistenziale sull'individuo di fronte alla Storia e alle sue inevitabili forze.
Il film non fu esente da polemiche: le sue audaci tematiche – l'adulterio, la prostituzione, la brutalità insita nella disciplina militare – si scontrarono frontalmente con i puritanesimi dell'epoca e le ferree maglie del Codice Hays, che impose tagli significativi rispetto alla crudezza del romanzo omonimo di James Jones. La trasposizione cinematografica fu una vera e propria battaglia, un atto di equilibrismo tra la fedeltà all'opera originale e le esigenze censorie, un braccio di ferro che Zinnemann, con la sua inconfondibile eleganza, seppe vincere, suggerendo l'indicibile senza mai mostrarlo esplicitamente, ma lasciando che la potenza emotiva delle performance e la forza della sceneggiatura facessero il loro lavoro. Questa "battaglia" interna per l'autenticità fu forse parte del "contrasto in seno all'Academy" per l'assegnazione di così tante statuette, in un'epoca in cui film dal contenuto più "edificante" erano spesso preferiti.
E se è vero che il tempo è un giudice implacabile e alcune sfumature di un nazionalismo allora quasi obbligatorio possono oggi apparire datate, l'anima pulsante di Da qui all'eternità risiede nella sua profonda, quasi dolorosa, umanità. Il presunto "patriottismo ridondante" è, a ben vedere, una patina superficiale che cela un'indagine ben più corrosiva sulla disciplina cieca, sull'autorità arbitraria e sul lato oscuro dell'American Dream in divisa. Lungi dall'essere un'ode acritica, il film di Zinnemann è una disamina agrodolce del destino individuale dinnanzi alla Storia con la maiuscola, un'anticipazione di quell'onda di cinema più critico che avrebbe poi disvelato le crepe dell'eroismo di facciata. Questo "romanzo" cinematografico sulla Seconda Guerra Mondiale rimane languidamente avvincente, sostenuto da un ritmo serrato che non lascia un attimo di respiro e dall'eccellenza ineguagliabile di un cast in stato di grazia.
Sicuramente memorabile, dunque, non solo per gli espedienti narrativi innovativi che seppero coniugare il dramma personale con la grande Storia, ma anche per la perizia cinematografica di Burnett Guffey, le cui inquadrature in bianco e nero esaltano la drammaticità delle situazioni, e per il montaggio magistrale che scandisce la tensione fino all'inevitabile catarsi. Un film che trascende il genere, affermandosi come un capolavoro senza tempo sulla resilienza dello spirito umano di fronte all'ineluttabilità del destino.
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