Dancer in the Dark
2000
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Regista
Lars von Trier scuotendosi di dosso il retaggio di Dogma ci racconta una favola postmoderna che destruttura il genere musicale. Non si tratta di una semplice decostruzione, quanto piuttosto di una vera e propria anatomia di un genere, svelando la sua intrinseca artificialità e, al contempo, la sua irrinunciabile funzione consolatoria. Il regista danese, con la sua consueta e geniale provocazione, porta il musical nel fango del Dogma, strappandolo dal palcoscenico luccicante per confinarlo in una realtà cruda e implacabile, dove il canto non è evasione ma disperata, intima necessità.
In realtà qualcosa del protocollo di Dogma 95 resiste stoicamente: ad esempio l’idea di girare l’intero film con telecamera a mano (molte inquadrature risultano traballanti ed insicure) fatto salvo per le scene in cui la protagonista sogna ad occhi aperti di cantare, dove invece vengono impiegate numerose postazioni fisse. Questo netto contrasto visivo non è un mero esercizio di stile, bensì la rappresentazione plastica della dicotomia che squarcia l'esistenza di Selma: il tremolio incerto e claustrofobico della realtà quotidiana, ripresa quasi come un documentario neorealista, si contrappone alla stasi composita e coreografica del suo universo mentale. È un confine permeabile e tragico, dove la rigidità formale dei numeri musicali rivela la rigidità di una mente che si aggrappa alla fantasia come unica ancora di salvezza, mentre l'instabilità delle riprese "reali" sottolinea la precarietà di un'esistenza sull'orlo del baratro.
Dancer in the Dark si affida completamente alla voce di Bjork per creare un linguaggio che possa raccontare il film. La sua performance vocale non è solo un accompagnamento musicale, ma un elemento narrativo primario, capace di trasfigurare la dura realtà in sinfonie di speranza e disperazione. È la voce stessa di Selma che diventa lente attraverso cui il pubblico è invitato a percepire il mondo, una sorta di sinestesia auditiva che sopperisce all'assenza della vista.
Ed è una scelta sicuramente vincente vista la meravigliosa estensione vocale della cantante islandese e la sua presenza scenica. Bjork non recita Selma, la incarna, portando sullo schermo la sua inconfondibile aura eterea e la sua vulnerabile, quasi aliena, intensità. Non vi occorrono occhi per vedere questo film, proprio come a Selma, la protagonista impersonata da una sorprendente Bjork. Questa frase risuona con una profondità agghiacciante, suggerendo che la vera visione risiede non negli occhi fisici, ma nella capacità di percepire l'essenza delle cose al di là della loro apparenza, un tema caro a molte narrazioni che esplorano la cecità come metafora di una verità più profonda.
Selma è una giovane emigrata nel 1964 dalla Cecoslovacchia negli Usa. Il suo status di immigrata, in un'America del dopoguerra che prometteva sogni ma spesso offriva solo durezza, aggiunge un ulteriore strato di alienazione e vulnerabilità. La donna sta progressivamente perdendo la vista, ma il suo segreto è nella musica, nel ballo, nel ritmo che avverte intorno a lei. Il suo "segreto" non è solo la musica, ma la sua inossidabile purezza d'animo, la sua fede incrollabile nel potere salvifico dell'immaginazione. Il duro lavoro della campagna non la piega ma le da modo di sublimare la vita in un musical senza tempo intimamente intrecciato con la realtà. Le sue coreografie mentali, quelle che vediamo sullo schermo, sono il suo scudo contro la disumanità, il suo modo di ricreare un ordine e una bellezza in un mondo che si ostina a negarglieli.
Selma diviene spirito di rinascita, Fata Morgana che piega la materia trasformandola in sfavillante musica. Ma la sua è una Fata Morgana tragica, una visione destinata a svanire crudelmente di fronte alla brutalità della giustizia umana e all'indifferenza di una società incapace di comprendere la sua incondizionata bontà. La sua storia, in fondo, è un melodramma nel senso più puro e straziante del termine, un'epopea del sacrificio materno che ricorda le grandi tragedie classiche, dove l'innocenza viene schiacciata dalla spietatezza del destino, amplificata qui dall'estetica cruda e senza filtri di von Trier.
Lars Von Trier sorprende e ammalia con questo film, un’opera magistrale in cui musica e narrazione costruiscono i fatti, capace di incantare anche il Festival di Cannes che gli attribuisce una meritatissima Palma d’Oro. La capacità del regista di fondere la più cruda delle realtà con la più eterea delle fantasie è la vera forza di Dancer in the Dark. Il film non solo incanta, ma scuote, interroga, e infine devasta l'anima dello spettatore, costringendolo a confrontarsi con la disarmante semplicità di un amore incondizionato e con il prezzo esorbitante che può costare mantenere la propria integrità in un mondo cinico. È un'opera che si inserisce perfettamente nella filmografia del regista, popolata da figure femminili che affrontano prove estreme, da Bess in Le onde del destino a Grace in Dogville, tutte votate a una forma di martirio o auto-sacrificio per amore o per un ideale.
Menzione di merito per Bjork, splendida interprete e voce eterea, e, giova ricordarlo, autrice di tutte le musiche presenti nel film, anche se personaggio non facile da gestire sul set (si dice che ogni mattina, prima di iniziare le riprese, urlasse il suo disprezzo al regista). La leggenda delle tensioni tra Bjork e von Trier sul set è quasi altrettanto celebre quanto il film stesso, con aneddoti che vanno dalle urla quotidiane all'abbandono temporaneo del set. Questa frizione, tuttavia, lungi dal nuocere al progetto, sembra aver alimentato la performance viscerale di Bjork, conferendo a Selma una vulnerabilità e una furia quasi palpabili. È come se il tormento del processo creativo avesse riversato direttamente la sua energia nella tormentata esistenza del personaggio, rendendo Dancer in the Dark non solo un'opera d'arte visiva e sonora, ma anche un potente, indimenticabile dramma umano.
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