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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Dark City

1998

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Un bulbo di luce nuda oscilla nel buio di una stanza d'albergo dozzinale, ipnotico pendolo che scandisce un tempo senza significato. Un uomo si desta in una vasca da bagno, l'acqua gelida che si insinua nelle ossa di una memoria cancellata. Non sa chi è, né come sia arrivato lì. Sul pavimento, il cadavere di una donna segnato da incisioni rituali a spirale. Questo è l'incipit di "Dark City" di Alex Proyas, un'apertura che non è un semplice prologo, ma la dichiarazione d'intenti di un intero universo cinematografico: un labirinto espressionista eretto sui detriti del subconscio, un noir metafisico che interroga la natura stessa dell'identità.

Prima di addentrarci nei meandri filosofici del film, è doveroso inginocchiarsi di fronte al suo apparato visivo, un trionfo di scenografia e fotografia che definisce il tono e il significato dell'opera. La città senza nome e senza sole di Proyas è la figlia bastarda e magnifica di Fritz Lang e F.W. Murnau, un incubo urbano dove i grattacieli si contorcono verso un cielo perennemente notturno come gli alberi scheletrici di un dipinto di Caspar David Friedrich. È l'architettura febbrile di "Metropolis" e le prospettive distorte de "Il gabinetto del dottor Caligari" filtrate attraverso l'estetica pulp di una rivista come "Weird Tales". L'anacronismo regna sovrano: automobili degli anni '40 sfrecciano accanto a tecnologie aliene, telefoni a disco convivono con siringhe per l'iniezione diretta di ricordi nel cervello. Questa collisione temporale non è un vezzo stilistico, ma un sintomo fondamentale della malattia che affligge questo mondo: la città non è un luogo con una storia, ma un set teatrale in perenne mutamento, un palinsesto di anime riscritto ogni notte da misteriosi direttori di scena.

Il nostro smemorato protagonista, John Murdoch, si muove in questo paesaggio come un'interrogazione esistenziale ambulante. La sua amnesia non è un semplice espediente narrativo per creare suspense, ma il nucleo di un'indagine che avrebbe fatto la gioia di Philip K. Dick. Se un uomo è la somma dei suoi ricordi, cosa rimane quando questi vengono sottratti o, peggio, sostituiti? Murdoch è un replicante inconsapevole in un mondo che non è la Los Angeles del 2019, ma un terrario cosmico ancora più crudele. La sua ricerca di "Shell Beach", l'unico luogo luminoso che balugina nella sua mente come un frammento di un sogno dimenticato, è la ricerca del Sé autentico, di un'origine che possa dare un senso a un presente artificiale. In questo, "Dark City" anticipa di un anno il dilemma di Neo in "The Matrix", ma lo fa con una sensibilità più cupa, quasi europea, meno votata all'azione e più incline alla disperazione esistenziale. Laddove i fratelli Wachowski costruiranno una parabola sulla liberazione messianica attraverso la tecnologia, Proyas orchestra un lamento gnostico sulla prigionia dell'anima.

Gli architetti di questa prigione sono gli Stranieri (Strangers), una razza aliena di cadaveri pallidi e telecinetici che indossano cappotti e cappelli neri, quasi una parodia funerea degli Uomini in Nero. Non sono conquistatori nel senso classico; sono scienziati, entomologi cosmici che studiano l'umanità per carpirne il segreto: l'individualità, l'anima. Per farlo, hanno creato questa città-laboratorio dove ogni notte, allo scoccare della mezzanotte, fermano il tempo – il "tuning" – per rimescolare le vite dei suoi abitanti, scambiando le loro identità, i loro ricordi, le loro classi sociali. Un barbone può svegliarsi ricco, un assassino può credere di essere un eroe. È l'esperimento definitivo sul determinismo: l'anima è un prodotto dell'ambiente e della memoria, o esiste qualcosa di più profondo, un "fantasma nella macchina" che resiste alla riprogrammazione? Gli Stranieri, esseri con una mente collettiva, non riescono a comprendere questo concetto, e la loro ricerca è tanto terrificante quanto patetica. Sono dei demiurghi gnostici, Arconti che hanno intrappolato le scintille divine dell'umanità in una realtà materiale illusoria per studiarle, ma sono incapaci di afferrare l'essenza di ciò che hanno imprigionato.

In questo schema, John Murdoch è l'anomalia, l'errore nel sistema. Risvegliandosi durante un "tuning", conserva la coscienza e, cosa ancora più sconvolgente, scopre di possedere lo stesso potere degli Stranieri. Diventa il Cristo gnostico, il Redentore che ha acquisito la gnosi (la conoscenza) della vera natura della realtà e può quindi plasmarla. La sua evoluzione non è fisica, ma epistemologica. Il suo viaggio non è verso un luogo, ma verso una consapevolezza. Ad aiutarlo, o forse a manipolarlo, c'è il Dottor Schreber, interpretato da un Kiefer Sutherland magnificamente sopra le righe, stridulo e contorto. Schreber è il Giuda di questo Vangelo apocrifo, il collaborazionista umano che crea i falsi ricordi per gli Stranieri, ma che in segreto lavora per trovare il singolo individuo in grado di spezzare il ciclo. La sua ambiguità morale lo rende uno dei personaggi più affascinanti del film, un Prometeo storpio che ruba il fuoco agli dèi non per eroismo, ma per disperata sopravvivenza.

È impossibile non notare come "Dark City" dialoghi con un'intera tradizione letteraria e filosofica. La città è una prigione panottica che Foucault avrebbe apprezzato, un labirinto di strade identiche che evoca le ossessioni di Borges. L'atmosfera di paranoia e impotenza di fronte a un potere invisibile e incomprensibile è puramente kafkiana. Ma soprattutto, il film è la più perfetta trasposizione cinematografica dell'Allegoria della Caverna di Platone. Gli abitanti della città sono i prigionieri incatenati che scambiano le ombre proiettate sul muro (i ricordi impiantati) per la realtà. Murdoch è il filosofo che si libera, esce dalla caverna (scopre la vera natura della città) e vede per la prima volta la luce accecante della verità (le stelle, il vuoto dello spazio). E, come il filosofo di Platone, il suo compito finale è quello di riplasmare la realtà secondo questa nuova conoscenza, portando letteralmente la luce – il sole – nel mondo delle ombre.

Un aneddoto di produzione cruciale rivela molto sulle tensioni tra visione artistica e logiche di mercato. La versione cinematografica originale del 1998 fu mutilata dalla New Line Cinema, che impose una voce narrante iniziale (recitata da Kiefer Sutherland) che svela quasi ogni mistero del film nei primi due minuti, temendo che il pubblico non potesse seguire la trama complessa. Fu un atto di vandalismo cinematografico che minò l'intera struttura a enigma del film. Fortunatamente, nel 2008 Proyas ha potuto restaurare la sua visione originale con il Director's Cut, eliminando la narrazione e restituendo all'opera il suo potere immersivo e la sua suspense filosofica. Questa versione è l'unica che merita di essere vista, l'unica che permette allo spettatore di provare lo stesso smarrimento e la stessa, graduale illuminazione del protagonista.

"Dark City" è un'opera che ha avuto la sfortuna di precedere di poco un fenomeno culturale globale. È il Mosè della fantascienza di fine millennio: ha condotto il pubblico alle soglie della terra promessa della realtà simulata, ma è stato "The Matrix" a entrarvi trionfalmente. Eppure, a distanza di anni, il film di Proyas risplende di una luce più personale, più autoriale. È un film fatto di materia onirica e inchiostro nero, un'elegia per l'individualità in un'era di conformità programmata. Il suo finale, in cui Murdoch usa i suoi poteri divini non per distruggere ma per creare, per far sorgere un sole e un oceano laddove c'era solo oscurità e vuoto, è uno degli atti di ottimismo più potenti e sudati della storia del cinema di fantascienza. Non è una vittoria militare, ma una vittoria estetica e spirituale. John Murdoch, l'uomo senza passato, diventa il creatore del futuro, dimostrando che l'essenza dell'umanità non risiede nei ricordi che ci vengono dati, ma nella nostra capacità di immaginare e costruire un mondo in cui valga la pena crearne di nuovi. E di fronte a una tale, abbagliante affermazione, anche la notte più buia è costretta a cedere il passo all'alba.

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