La Fuga
1947
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Dark Passage, la gemma scura incastonata nel cuore del noir classico, rappresenta effettivamente il primo vero archetipo il cui ganglio narrativo è incentrato sul Tòpos dell’uomo in fuga. Non si tratta di una semplice evasione, né di un comune inseguimento, bensì di un'odissea psicologica, un viaggio attraverso i labirinti dell'identità smarrita e della paranoia. La vicenda, basata sull’omonimo romanzo di David Goodis, un maestro della narrativa hard-boiled la cui prosa cupa e disillusa ha fornito linfa vitale a molte delle opere più rappresentative del genere, vede protagonista Vincent Parry, un uomo accusato ingiustamente di aver ucciso la moglie che, con una fuga audace, riesce a evadere di prigione per poi sottoporsi a una drastica chirurgia plastica, non solo per sfuggire ai suoi inseguitori, ma per sfuggire a sé stesso, a un volto che lo condanna, a un'esistenza che gli è stata strappata.
L'audacia di Delmer Daves nel confinare lo spettatore alla prospettiva claustrofobica del protagonista per la prima ora di pellicola, attraverso un punto di vista strettamente soggettivo, non è mero espediente tecnico, bensì una profonda immersione nella disorientante realtà di Vincent Parry. Non vediamo il suo volto, ma percepiamo ogni suo respiro affannoso, ogni ombra minacciosa, ogni sussurro di paura. Questa scelta radicale amplifica il senso di alienazione e la perdita di identità che è al cuore della narrazione. Il volto di Bogart, una volta rivelato dopo l'intervento, non è solo il volto di un attore iconico, ma la materializzazione di un'identità ritrovata, o forse forgiata ex novo, un simbolo del trapasso dalla visione interiore, soggettiva e frammentata, a una realtà più concreta, seppur ancora precaria. È un momento di cinema quasi dadaista, un atto di re-creazione del personaggio davanti agli occhi del pubblico, che riflette il tema della metamorfosi e della ricerca di una nuova verità.
Seppur ferocemente braccato da un sistema giudiziario fallace e da individui mossi da rancore personale, l’uomo troverà l’aiuto e l’amore inaspettato di una donna incontrata per caso, Irene Jansen. Lauren Bacall, con la sua presenza magnetica e la sua voce roca che taglia l'aria come un bisturi affilato, interpreta Irene non come la classica femme fatale del noir, ma come una figura complessa e ambigua, essa stessa ai margini di un'esistenza convenzionale. Irene offre a Parry non la perdizione, ma un inaspettato ancoraggio, un rifugio emotivo in un mondo alla deriva. Il loro è un sodalizio forgiato dall'emarginazione, un'alleanza contro un'ingiustizia universale. Insieme espatrieranno, in un finale che, per quanto idealizzato dal codice Hays, offre un barlume di speranza, la possibilità di poter ricominciare una vita, se non libera dal passato, almeno lontano dalla sua morsa soffocante.
Il tema centrale dell’opera è per la prima volta, non la vicenda poliziesca in sé (di cui si intuisce quasi immediatamente il vero assassino), ma il concept di un uomo senza punti di riferimento, privato di amicizie, di un milieu sociale riconosciuto e perfino della sua stessa umanità. Questo è il cuore pulsante del noir più puro: la solitudine esistenziale, la paranoia post-bellica che permeava la società americana, la sensazione di essere un pesce fuor d'acqua in un mondo ostile. Parry è l'incarnazione dell'alienazione, un'anima perduta che naviga a vista in un mare di ombre e menzogne. La sua fuga non è solo da una prigione fisica, ma dalla prigione di un'identità rubata, dalla condanna di essere un "nessuno" per la legge e un "tutti" per la sua coscienza.
La redenzione del protagonista attraverso il suo graduale distacco da quella società che così animalescamente gli dà la caccia è forse il messaggio ultimo cui Daves vuol affidare alla macchina da presa. Daves, lungi dall'essere un mero artigiano, dimostra una profonda comprensione della psicologia umana, tracciando con maestria il percorso di Parry verso una forma di libertà interiore, ottenuta paradossalmente attraverso l'emarginazione volontaria. È una redenzione amara, certo, che non cancella il dolore, ma che consente al personaggio di ricostruire, mattone dopo mattone, un senso di dignità e appartenenza, non nel contesto sociale che lo ha espulso, ma nella relazione con l'unica persona che ha saputo vederlo oltre il suo status di fuggitivo. Questo tema anticipa certe correnti esistenzialiste del cinema europeo, dove la salvezza non è un dono divino, ma una conquista ardua e profondamente personale.
Centrata e perfettamente a fuoco la prova di Bogart, come sempre a suo agio nei ruoli oscuri e mistificanti. Il suo volto, inizialmente invisibile, poi bendato, infine rivelato con le sue cicatrici (visibili e invisibili), diviene un palinsesto su cui si iscrive l'intera odissea del personaggio. Bogart, con la sua inimitabile capacità di esprimere cinismo e vulnerabilità con un solo sguardo, incarna la disperazione e la tenacia di Parry con una maestria che lo ha consacrato icona eterna del cinema.
Per riunire di nuovo la collaudata coppia Bacall-Bogart, il cui carisma combinato era garanzia di successo al botteghino, vennero fatte notevoli pressioni sui rispettivi agenti e si dice che il cachet lievitò paurosamente. La Warner Bros., lungimirante nel capitalizzare sulla loro innegabile chimica e sul loro status di celebrità amate dal pubblico, sapeva di avere in mano una formula vincente. E il tutto, va da sé, funzionò perfettamente: il film fu un vero successo commerciale, non solo consolidando la leggenda di Bogart e Bacall come la coppia d'oro di Hollywood, ma cementando Dark Passage come uno dei capisaldi di quel cinema crepuscolare, fatto di ombre e inquietudini, che ancora oggi ci affascina con la sua atemporale modernità. La sua influenza è riscontrabile in innumerevoli thriller successivi, testimoniando la sua natura di archetipo che ha plasmato il genere e la nostra percezione dell'uomo in fuga.
Attori Principali
Paese
Galleria





Featured Videos
Trailer Ufficiale
Commenti
Loading comments...