I Giorni del Cielo
1978
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Regista
Terence Malick, grande esteta della macchina da presa, scrive e dirige un’opera che scava nei sentimenti dei personaggi coinvolti esponendoli allo spettatore come tesori preziosi riportati finalmente alla luce. Non si tratta di una mera esplorazione psicologica, bensì di una vera e propria epopea lirica che eleva l'intimità umana a dramma universale, inserendosi con prepotenza nel solco di una filmografia, quella malickiana, da sempre votata alla ricerca di una verità trascendente nel quotidiano, nell'impercettibile pulsare della natura e nell'eco silenzioso delle anime. Il suo cinema, fatto di suggestioni più che di spiegazioni, di monologhi interiori che danzano tra il poetico e il filosofico, trova in questa pellicola una delle sue massime espressioni.
La storia è quella di Bill (Richard Gere) e Abby (Brooke Adams), una coppia di amanti che si finge fratello e sorella, una stratagemma dettato dalla disperazione e dalla necessità di sopravvivenza in un mondo spietato. Dalla spietata Chicago in cui non riescono a sopravvivere, emblema di una modernità che fagocita gli umili, si spostano a sud, verso il Texas, una terra vasta e primordiale che promette, illusoriamente, una nuova genesi. Sono accompagnati da Linda, la sorellina di Bill, la narratrice della storia, la cui voce fuori campo, al contempo ingenua e sagace, innocente e premonitrice, funge da coro greco, filtrando la tragedia attraverso la lente distaccata ma acuta dell'infanzia. È attraverso i suoi occhi che la vicenda assume le tinte di una favola cruda, di un mito agreste che si svela in tutta la sua ineluttabilità.
Approdano in una fattoria, un'oasi di prosperità in un deserto di povertà, e iniziano a lavorare come manovali, immergendosi in un ritmo di vita rurale che è al tempo stesso duro e idilliaco. Finché Cuck, il proprietario della fattoria malato terminale, non si innamorerà di Abby: Bill, venuto a conoscenza della malattia e spinto dalla cieca ambizione di sfuggire alla miseria, esorterà Abby a sposarlo per denaro. Una decisione che sigilla un patto col diavolo, ponendo le basi per un baratro morale. Una volta sposati Bill si rende conto che Abby si sta innamorando di Chuck, una complicazione sentimentale che innesca il vero detonatore della trama, rivelando la fragilità dei loro intenti e la potenza inarrestabile del cuore. Inizierà così una tempesta di emozioni, un vortice di gelosia, desiderio e tradimento che perderà tutti i protagonisti della vicenda, conducendoli verso un epilogo tanto inevitabile quanto straziante.
Questo è un plot dai toni shakespeariani, dove le passioni primordiali si scontrano con le convenzioni sociali e il destino tesse la sua trama implacabile. Malick muove i suoi personaggi in direzione della tragedia con furore narrativo, orchestrando un dramma di proporzioni epiche in un microcosmo rurale. Tale furia è corroborata, anzi esaltata, dalla superba fotografia di Nestor Almendros, un capolavoro di estetica e tecnica che gli valse un meritato Oscar. La scelta di girare quasi esclusivamente durante la cosiddetta "ora magica" – il breve lasso di tempo all'alba e al tramonto in cui la luce è dorata e diffusa – non è solo una ricerca di bellezza pittorica, ma una vera e propria filosofia visiva. Questa luce eterea, quasi irrealistica, conferisce alle scene un'aura onirica e malinconica, elevando ogni fotogramma a quadro impressionista, talvolta espressionista, in cui la natura non è mero sfondo ma protagonista attiva, specchio dell'anima dei personaggi e presagio degli eventi. La texture delle immagini, i colori saturi ma naturali, la sensazione di un respiro vitale che permea ogni inquadratura, sono il frutto di una maniacale attenzione al dettaglio e di una profonda intesa tra regista e direttore della fotografia, capace di cogliere l'essenza stessa della luce. Si percepisce una ricerca di autenticità visiva che si allontana dalle lenti e dai filtri tradizionali, optando per una resa quasi documentaristica della luce naturale, eppure il risultato è di una stilizzazione sublime e adamantina.
Il paesaggio rurale del Texas del sud diviene un levigato strumento di narrazione, un'entità quasi vivente che interagisce con i personaggi, riflettendone gli stati d'animo e prefigurandone il destino. I campi di grano sterminati, le case isolate, il cielo sconfinato sono elementi che contribuiscono a creare un senso di isolamento, di solitudine esistenziale, ma anche di grandezza primordiale. Fotogrammi che sembrano quadri, sì, ma non solo, vere e proprie tele in movimento dove la luce perfetta, quella che piove su immagini stilisticamente adamantine, non è un semplice abbellimento ma un veicolo di significato. La scena dell'invasione delle locuste, biblica nella sua portata, e l'incendio che devasta i campi, simbolo di purificazione e distruzione, non sono effetti speciali, ma momenti di pura epifania visiva che cementano il legame indissolubile tra uomo e natura, tra il desiderio umano e le forze incontrollabili del cosmo.
Un’opera di straordinario spessore psicologico, dunque, ma che rifugge la psicologia didascalica, preferendo l'allusione, il non detto, il sussurro. È uno spietato osservatorio dove vivisezionare i moti dell’anima, ma lo fa con la delicatezza di un poeta e l'acume di un filosofo. Malick ci invita a contemplare la miseria e la grandezza dell'uomo, la sua capacità di amare e di distruggere, la sua perenne ricerca di un posto nel mondo. "I Giorni del Cielo" non è solo un film, è un'esperienza sensoriale e intellettuale, un inno alla bellezza effimera del mondo e alla fragilità della condizione umana, un capolavoro che continua a risplendere come un faro nella storia del cinema.
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