Diamanti grezzi
2019
Vota questo film
Media: 4.33 / 5
(6 voti)
Registi
Un viaggio endoscopico attraverso le viscere di un uomo, che si trasforma in un’esplorazione cosmica nelle profondità di una gemma etiope. L’apertura di Diamanti grezzi non è un semplice incipit, è una dichiarazione di intenti, un passaporto per un inferno sensoriale. I fratelli Safdie ci gettano immediatamente in un abisso di carne e cristallo, fondendo il macrocosmo col microcosmo, il sublime con il triviale, e stabilendo le coordinate di un’opera che opera sulla nostra pelle come un trapano da dentista privo di anestesia. È un cinema che non chiede permesso, che ti afferra per la giugulare e non molla la presa per 135 minuti di puro, ininterrotto parossismo.
Al centro di questo vortice caotico si agita Howard Ratner, gioielliere del Diamond District di New York e scommettitore compulsivo, un Prometeo da quattro soldi incatenato non a una roccia, ma al tabellone delle quote sportive. La performance di Adam Sandler non è una trasformazione, è una liberazione. È come se decenni di repressione comica, di personaggi infantili e voci stridule, si fossero compressi in un unico punto di singolarità per poi esplodere in questa supernova di disperazione e hybris. Il suo Howard è un topo in un labirinto elettrificato che si è costruito da solo, un fascio di nervi scoperti tenuto insieme da gel per capelli, occhiali Cartier senza montatura e un’incrollabile, patologica fede nella “prossima grande vincita”. Parla sopra gli altri non per maleducazione, ma per necessità biologica, come uno squalo che deve continuare a nuotare per respirare. Ogni sua frase è una scommessa, ogni dialogo una negoziazione, ogni respiro un calcolo di probabilità. È una figura che Dostoevskij avrebbe adorato, un discendente diretto del suo Aleksej Ivanovič de Il giocatore, per cui il brivido del rischio ha da tempo soppiantato il desiderio della vittoria. Non gioca per vincere; gioca per sentirsi vivo.
I Safdie orchestrano questa discesa agli inferi con una maestria formale che è al contempo asfissiante e virtuosistica. Attingendo a piene mani dal realismo febbrile di John Cassavetes e dall’energia da strada del primo Scorsese, costruiscono una sinfonia di ansia urbana. La macchina da presa di Darius Khondji, in un perpetuo, nervoso movimento, si incolla a Howard, invadendo il suo spazio personale e, di conseguenza, il nostro. I lunghi teleobiettivi schiacciano la profondità di campo, intrappolando il protagonista in un mondo senza via di fuga, un dedalo di vetrine scintillanti, uffici angusti e trafficati marciapiedi della 47ª Strada. La colonna sonora elettronica di Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) è l’altro protagonista del film: un tappeto sonoro cosmico e pulsante, a tratti vicino alla new age più lisergica, a tratti minaccioso come un allarme impazzito. Non commenta l’azione, la genera. È il battito cardiaco accelerato del film, una marea sintetica che si insinua nel nostro sistema nervoso, sincronizzando il nostro panico con quello di Howard. A questo si aggiunge un sound design cacofonico dove le conversazioni si sovrappongono, le urla si mescolano ai notiziari sportivi e ai cicalini delle porte blindate, creando un paesaggio sonoro che è la perfetta traduzione della mente frammentata e sovraccarica del protagonista.
Il film è ambientato con precisione quasi documentaristica nella primavera del 2012, durante i playoff NBA che videro protagonisti i Boston Celtics di Kevin Garnett. Questa scelta non è un vezzo, ma il cuore tematico dell’opera. Ancorando la finzione a un evento sportivo reale e storicizzato, i Safdie compiono un’operazione meta-testuale geniale. Per chi conosce l'esito di quelle partite, la narrazione si carica di una tensione quasi insostenibile, un senso di ineluttabilità tragica. Assistiamo a Howard che scommette su eventi di cui noi conosciamo già il risultato, trasformandoci in divinità impotenti che osservano una formica correre verso un destino già scritto. Lo stesso Kevin Garnett, che interpreta una versione mistificata di sé stesso, diventa un catalizzatore fondamentale. La sua ossessione per l’opale nero, che crede possa incanalare un’energia primordiale e migliorare le sue prestazioni, eleva la pietra da semplice MacGuffin a oggetto totemico, un pezzo di universo caduto sulla Terra.
E l'opale è il vero centro di gravità del film. Non è un diamante, simbolo di purezza e valore codificato, ma un opale grezzo, una formazione ctonia e caotica che contiene al suo interno galassie di colore. Rappresenta la bellezza iridescente e disordinata del caso, la stessa forza che governa le scommesse di Howard e la sua vita. La sua ricerca ossessiva della gemma non è solo avidità; è una ricerca di convalida, il tentativo di trovare un ordine, un disegno divino, nel caos della propria esistenza. In questo, Diamanti grezzi diventa una potentissima allegoria del capitalismo terminale. Howard è l’incarnazione dell’homo oeconomicus spinto al suo estremo patologico, un uomo che ha mercificato ogni aspetto della sua vita, dalle relazioni familiari (la moglie Dinah che lo disprezza, l’amante Julia che è sia una dipendente che una risorsa) alla propria stessa sopravvivenza. Il suo mantra non è “penso dunque sono”, ma “scommetto dunque esisto”. In questo non è poi così diverso da un trader di Wall Street che gioca con derivati astratti o da un imprenditore della Silicon Valley che scommette tutto su un’idea. È il Sogno Americano visto attraverso uno specchio deformante, dove l'ascesa sociale non è più un percorso di lavoro e sacrificio, ma un singolo, disperato lancio di dadi.
Il film esplora con acume la specificità culturale della comunità ebraica di New York, non per formulare giudizi, ma per dare spessore e autenticità al mondo di Howard. La sua partecipazione a una cena della Pesach in famiglia, incastrata tra una minaccia di morte e un’asta fraudolenta, non è solo una nota di colore, ma un momento di straziante contrasto. In mezzo a rituali che parlano di schiavitù e liberazione, lui è più schiavo che mai delle sue dipendenze, incapace di connettersi a una tradizione che dovrebbe essere la sua ancora. La sua fede non è in Dio, ma nella cabala numerica delle statistiche sportive, il suo testo sacro è il palinsesto delle partite del giorno.
Il finale è un capolavoro di costruzione della tensione, una delle sequenze più adrenaliniche e strazianti del cinema contemporaneo. Howard, barricato nel suo negozio, osserva in televisione la partita su cui ha puntato tutto, la sua vita e la sua morte. I Safdie trasformano un evento sportivo in un thriller escatologico. Ogni canestro, ogni rimbalzo, ogni fischio dell'arbitro diventa una questione di vita o di morte. E quando, contro ogni probabilità, la sua scommessa impossibile si avvera, Howard sperimenta un attimo di pura, estatica onnipotenza. È il momento in cui ha finalmente piegato l'universo al suo volere, ha visto il disegno nel caos. Ma è una vittoria di Pirro. La tragedia greca si compie nel modo più brutale e beffardo, e la cinepresa, con una freddezza cosmica, abbandona il suo cadavere per tornare da dove era partita: dentro la gemma, dentro il suo universo indifferente e meraviglioso. Il proiettile che lo uccide diventa il punto di ingresso per un ultimo viaggio psichedelico, chiudendo il cerchio in un modo che è insieme devastante e sublime.
Diamanti grezzi non è un film confortevole. È un’esperienza fisica, un assalto ai sensi, un trattato sulla natura dell'azzardo e sulla dipendenza come condizione esistenziale dell'uomo moderno. È un’opera che vibra della stessa energia caotica e inafferrabile del suo opale, e che consacra i fratelli Safdie come due dei più importanti e vitali cantori del malessere contemporaneo. Un capolavoro lancinante, un diamante sporco e perfetto, estratto dalle vene più profonde e oscure del cinema.
Attori Principali
Paese
Galleria








Commenti
Loading comments...
