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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Dillinger è morto

1969

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Un revolver Colt Cobra .38, accuratamente avvolto in fogli di giornale come una reliquia profana o un pesce appena pescato. L'oggetto emerge dal buio di un armadio, un residuo spettrale di un'epoca che non esiste più, se mai è esistita. L'iscrizione sul calcio, "To John Dillinger from his admiring gang", è un epitaffio ironico, il sigillo su un mito svuotato. Inizia così, con il ritrovamento di un feticcio necrofilo, l'implosione silenziosa di Glauco, designer industriale interpretato da un Michel Piccoli monumentale nella sua impassibile disintegrazione. L'opera di Marco Ferreri, datata 1969, non è un film nel senso narrativo del termine; è un'autopsia del quotidiano, un saggio fenomenologico sulla paralisi dell'uomo moderno inscatolato nel suo stesso benessere.

Glauco torna a casa. La sua casa non è un rifugio, ma un mausoleo del buon gusto, un'installazione d'arte contemporanea in cui ogni oggetto di design – dalle lampade Arco di Castiglioni alle sedie di Le Corbusier – urla la propria funzione estetica avendo smarrito quella pratica. È un ambiente di un bianco accecante, chirurgico, uno spazio che sembra pre-arredato per l'assenza. Sua moglie, una Anita Pallenberg eterea e catatonica, giace a letto, malata, quasi un altro pezzo d'arredamento inerte. La comunicazione è azzerata, ridotta a monosillabi, a gesti meccanici. Il silenzio che regna in questo appartamento borghese non è quello pacifico della quiete, ma quello assordante del vuoto pneumatico, lo stesso vuoto che Antonioni aveva esplorato con metafisica malinconia. Ma se in Antonioni l'incomunicabilità era una malattia dell'anima che si manifestava in un'elegante deriva esistenziale, in Ferreri diventa una farsa grottesca, un guasto fisiologico del sistema. L'uomo-automa non è più triste; è semplicemente rotto.

Il corpo centrale del film è un algoritmo di gesti. Glauco ha fame. Inizia a cucinare. Quella che segue è una delle più straordinarie sequenze della storia del cinema: una preparazione culinaria lunga, meticolosa, quasi documentaristica, che si trasforma in un rituale ossessivo. Non c'è la gioia conviviale de Il pranzo di Babette o la sensualità de La grande abbuffata (che Ferreri girerà pochi anni dopo, portando queste premesse al loro parossismo); c'è solo la meccanica precisione di un compito autoimposto per riempire il tempo, per scongiurare il pensiero. Mentre cucina, Glauco smonta, pulisce e rimonta il revolver di Dillinger con la stessa, identica, metodica alienazione. L'arma, simbolo della ribellione violenta e anti-sistemica, viene addomesticata, de-mitizzata, ridotta a un oggetto di design al pari degli altri, un giocattolo complesso da maneggiare per ammazzare la noia.

In questo balletto solipsistico, Ferreri inserisce un cortocircuito metatestuale geniale. Glauco proietta vecchi filmini di famiglia in 16mm. Sulla parete bianca della sua prigione domestica, le immagini sgranate di vacanze al mare, di una vita passata che appare irrimediabilmente più autentica, si sovrappongono al presente. Piccoli guarda sé stesso più giovane, un fantasma che gli sorride da un tempo perduto. È un'operazione che ricorda il Krapp's Last Tape di Beckett: l'uomo contemporaneo è condannato a confrontarsi con le registrazioni della propria vita, incapace di viverne una nuova. La Storia – quella con la S maiuscola di Dillinger e quella personale dei filmini amatoriali – è diventata uno spettacolo da consumare passivamente, un reperto da museo proiettato sulla parete di una cella. Glauco non è più un soggetto storico, ma un curatore del proprio fallimento.

Siamo nel 1969. L'eco della contestazione globale, del Maggio francese, dell'Autunno Caldo italiano, risuona fuori dalle finestre di quell'appartamento. Ma dentro, tutto è immobile. Dillinger è morto è la più spietata e lucida diagnosi della crisi della borghesia intellettuale e progressista di fronte alla possibilità (o all'impossibilità) della rivoluzione. Glauco è l'uomo che ha letto Marcuse, che ha arredato la casa secondo i canoni del modernismo, che possiede i simboli della cultura, ma che è incapace di tradurre tutto questo in azione. La sua unica, possibile, forma di rivolta non è politica, non è collettiva, ma è un gesto puramente individuale, gratuito, surrealista. Un atto di violenza insensato che scaturisce dalla noia, non dall'ideologia.

Quando Glauco, dopo aver dipinto di pois rossi la pistola (un atto dadaista che la priva della sua ultima aura di minaccia, trasformandola in un'opera d'arte pop), la punta contro la moglie addormentata, il film raggiunge il suo apice di ambiguità. L'omicidio, se avviene, è mostrato con una freddezza glaciale, privo di qualsiasi catarsi drammatica. È un'altra azione nel suo repertorio di gesti vuoti, l'equivalente di spegnere una luce. È la logica conclusione del suo percorso di disumanizzazione: l'eliminazione dell'Altro come ultimo, disperato, tentativo di affermare il proprio Io. O forse è solo una fantasia, un'allucinazione, il sogno febbrile di un uomo intrappolato. Ferreri, da maestro del grottesco, ci nega la certezza, perché nel mondo di Glauco la differenza tra reale e immaginario ha smesso di avere importanza.

Se il gesto omicida può apparire come una rottura, una liberazione, il finale la nega con una crudeltà sublime. Glauco fugge, raggiunge il mare e si imbarca su uno yacht diretto a Tahiti. L'orizzonte sembra aprirsi, promettere una via di fuga. Ma è l'inganno supremo. La sua evasione non è verso la libertà, ma verso un altro cliché, un altro mito consumistico: l'esotismo à la Gauguin, il paradiso artificiale dei dépliant turistici. A bordo, incontra una cuoca enigmatica che gli parla di una vita ideale sotto il sole dei tropici. Ma la sua espressione è vacua, le sue parole suonano come uno slogan pubblicitario. Glauco ha semplicemente scambiato la prigione bianca del suo appartamento con la prigione blu di un oceano immaginario. La rivoluzione è fallita prima ancora di cominciare, riassorbita e neutralizzata nell'ennesima fantasia di consumo.

Dillinger è morto è un'opera terminale. È il punto di non ritorno del cinema sulla crisi della modernità, un film che riesce a essere contemporaneamente un trattato di sociologia, un'opera di videoarte e un thriller dell'anima. Con la sua struttura circolare e asfissiante, anticipa le geometrie esistenziali di Chantal Akerman in Jeanne Dielman, ma le carica di un sarcasmo nero e di una furia iconoclasta tutta italiana. È un oggetto cinematografico radicale, irritante, che rifiuta ogni compiacimento verso lo spettatore, costringendolo a fissare l'abisso del proprio benessere. Marco Ferreri non giudica il suo personaggio, si limita a registrarne i movimenti come un entomologo studia un insetto sotto vetro. E ciò che vede, e che ci mostra, è il rigor mortis di una civiltà che, avendo soddisfatto tutti i suoi bisogni, ha scoperto di non avere più desideri. Se non quello, forse, di premere il grilletto. Su chi, o su cosa, è ormai irrilevante.

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