District 9
2009
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Regista
Uno dei più terrificanti esordi alla regia di sempre questo di Neill Blomkamp. Un’opera prima che non si limita a scuotere, ma che si insinua sotto la pelle con la virulenza di un’allegoria disturbante e quanto mai attuale. Non è solo la violenza esplicita o la repulsione estetica a renderlo tale, ma la spietata lucidità con cui il regista sudafricano ci obbliga a confrontarci con le bassezze più abissali della natura umana.
Un film costruito e filmato con una naturalezza e un disincanto disarmanti, quasi un reportage di guerra o un documentario antropologico calato in una realtà distopica, capace di catapultarci all’interno di una storia complessa dove uomo e alieno convivono a fatica sulla stessa terra e dove il risvolto razziale si configura come chiave di lettura per interpretare la drammaturgia e il senso ultimo di questa vicenda. L'adozione di un registro quasi documentaristico, con interviste "fittizie" a scienziati, politici e gente comune, conferisce una veridicità sconcertante alla premessa più fantasiosa, rendendo la discriminazione aliena un’eco agghiacciante di pagine buie della nostra storia. Questo approccio, ereditato in parte dal corto che lo ha preceduto, "Alive in Joburg", è la vera spina dorsale stilistica del film, un ponte tra il fantastico e il tragicamente reale.
Dopo il misterioso approdo sulla terra di un’astronave, in una delle più enigmatiche e silenziose prime scene di contatto mai viste al cinema, le cose sono rapidamente precipitate. I visitatori alieni, immediatamente soprannominati con disprezzo "gamberoni" per il loro aspetto insettoide, sono stati confinati in una sorta di ghetto nei sobborghi di Cape Town in Sudafrica. La scelta di ambientazione non è affatto casuale, ma è un fulcro narrativo e tematico: la nazione arcobaleno, fresca di cicatrici dell’apartheid e ancora alle prese con endemiche problematiche di xenofobia e disuguaglianza sociale (soprattutto nei confronti degli immigrati provenienti da altri paesi africani), diventa il palcoscenico ideale per questa parabola sulla segregazione. Le baracche di District 9 non sono semplici scenografie, ma richiamano visivamente e tematicamente le township reali, evocando la povertà e l'emarginazione.
Nel corso della loro permanenza vengono fatti oggetto di atteggiamenti intimidatori da parte degli umani che opprimono la popolazione aliena come fossero dei carcerieri che sorvegliano un lager. L'analogia è esplicita e agghiacciante: il campo di concentramento non è più solo un ricordo storico, ma una possibilità sempre latente, una condizione dell’essere per chiunque sia percepito come "altro". Gli alieni non sono presentati come invasori ostili, ma come profughi indigenti e disorientati, abbandonati a sé stessi su un pianeta ostile. La loro disperazione è palpabile, la loro dignità calpestata in ogni interazione con gli umani, che li vedono solo come una minaccia biologica o una risorsa da sfruttare, riducendoli a mere carcasse o a cavie per armi aliene.
La vicenda assume ben presto i connotati di una squallida storia a sfondo razziale, con gli alieni che subiscono discriminazione per il loro aspetto fisico da giganteschi carapaci. La loro alterità, così radicale e non antropomorfa, rende la loro sofferenza ancora più scomoda per lo spettatore, sfidando il pregiudizio che spesso subordina l'empatia alla somiglianza. È in questo contesto di brutalità amministrativa che si inserisce la figura di Wikus Van De Merwe, un burocrate inizialmente pavido e opportunista, incaricato dall’azienda di armamenti MNU di gestire lo sgombero forzato del District 9.
Uno dei funzionari a capo dell’operazione di sgombero delle abitazioni dei “gamberoni” viene contaminato da un misterioso liquido ed inizia a trasformarsi in uno degli esseri che era incaricato di contenere. Questa metamorfosi è il cuore pulsante del film, un twist narrativo che eleva la trama da semplice allegoria a profonda riflessione esistenziale. La trasformazione di Wikus, che da carnefice e razzista in miniatura si trova a subire la stessa intolleranza che prima perpetrava, è una terrificante epifania kafkiana. Il suo corpo che si deforma, le sue unghie che si staccano, il suo braccio che si tramuta in un arto alieno, non è solo un horror fisico, ma una disintegrazione dell'identità e della posizione sociale, che lo costringe a vedere il mondo dagli occhi dell'oppresso.
Inizia così la sua odissea a cavallo dei due gruppi etnici, umani ed alieni, fino a compenetrare la vera essenza dei visitatori e il motivo della loro venuta. Wikus si ritrova a essere il "ponte" non voluto, l'ambasciatore involontario tra specie, scoprendo l'intelligenza, la cultura e la sofferenza di esseri che aveva sempre disprezzato. La ricerca disperata di Christopher Johnson, l'alieno con cui Wikus stringe un'alleanza forzata, per ritornare al proprio pianeta e salvare il suo popolo, fornisce il contrappunto emotivo e la spinta propulsiva a una narrazione altrimenti cupa e nichilista. È attraverso questa partnership che il film rivela non solo l'orrore dell'intolleranza umana, ma anche la sorprendente resilienza e dignità della specie aliena.
Splendida la fotografia con le scene della baraccopoli aliena iconograficamente perfette. L'estetica è grintosa, desaturata, quasi sporca, eppure di un impatto visivo straordinario. Le riprese a mano, i tagli veloci, l'integrazione fluida di CGI (curata magistralmente dalla Weta Workshop, ma con un budget limitato che ha stimolato la creatività) e effetti pratici, contribuiscono a creare un'immersione totale in un mondo che si sente incredibilmente reale e tangibile. Ogni vicolo, ogni rottame, ogni dettaglio della squallida esistenza dei "gamberoni" è reso con una cura maniacale che ne esalta il simbolismo.
Una miriade di invenzioni sceniche, dall'arsenale alieno di armi che richiedono DNA specifico per funzionare, alle tecnologie di occultamento, passando per il design degli alieni stessi, così lontani da ogni cliché fantascientifico, rivelano una fresca originalità di fondo e una sceneggiatura senza sbavature che rendono quest’opera uno dei punti di riferimenti della fantascienza degli ultimi anni. "District 9" non è solo un film di intrattenimento, ma un saggio cinematografico acuto e coraggioso sulla natura della tolleranza e del pregiudizio, un inno alla capacità della fantascienza di riflettere e interrogare la nostra stessa umanità. Il suo impatto è stato tale da ridefinire il genere, dimostrando che blockbuster ad alto impatto visivo possono anche essere veicoli per un commento sociale profondo e scomodo, radicando la speculazione futuristica nella cruda realtà del presente.
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