Django Unchained
2012
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Regista
Tarantino continua il suo percorso attraverso le contaminazioni cinematografiche che sono i pilastri della sua genesi artistica, una vera e propria architettura postmoderna costruita sulla decostruzione e riassemblaggio di generi e iconografie. Il suo cinema non è semplice citazionismo, ma un'alchimia raffinata che trasforma il familiare in qualcosa di sorprendentemente nuovo e sovversivo.
In questo caso compie un’operazione oltremodo rischiosa, persino temeraria, andando a pescare a piene mani negli spaghetti western più torbidi e iconoclasti di Corbucci – il cui Django originale, interpretato da un Franco Nero algido e vendicativo, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del cinema di genere – ed estraendo dal cilindro uno dei personaggi storici di quel periodo e di quel genere: Django. L’audacia sta non solo nel rievocare un nome tanto sacro, ma nel calarlo in un contesto storico-sociale così doloroso e controverso come l'America schiavista pre-Guerra Civile, un territorio che il western classico ha spesso ignorato o edulcorato. È un'operazione non solo di omaggio, ma di vera e propria rifunzionalizzazione del mito del giustiziere solitario, vestendolo di una missione di liberazione storica e morale.
Tarantino, come suo solito, incrocia diabolicamente la figura del pistolero redento, un archetipo del genere, con la lotta di liberazione degli schiavi neri nel sud razzista di fine ottocento. Questo innesto audace non è un mero espediente narrativo; è il cuore pulsante del film, una sovrapposizione brutale tra l’estetica spietata e amorale del western all’italiana e la cruda realtà di un’epoca macchiata dall'orrore della schiavitù. Ne esce una storia surrealmente avvincente, intrisa di una violenza stilizzata e catartica che, pur non lesinando sulla brutalità della materia trattata, la sublima attraverso il filtro iperrealista del suo inconfondibile occhio registico, trasformando il dramma storico in un'epopea di vendetta personale e collettiva. Il parallelo con Bastardi Senza Gloria è lampante: entrambi i film sono esercizi di revisionismo storico dove la giustizia, negata dalla realtà, viene ripristinata con forza bruta e una buona dose di fantasia pulp.
Il dottor King Schultz, un finto dentista in realtà cacciatore di taglie di origine tedesca, figura di disarmante eccentricità e dialettica sopraffina, libera lo schiavo Django e gli insegna il mestiere di pistolero. La loro relazione è un duetto magnificamente orchestrato: da un lato l’illuminato pragmatismo europeo di Schultz, dall’altro la fame di giustizia primordiale di Django. Dopo essersi avvalso dei preziosi servizi di Django, riconoscendone il valore e il potenziale, il dottore lo aiuterà nel ritrovare la sua Broomhilda, come un novello Sigfrido nella saga dei Nibelunghi. Questa affascinante allegoria wagneriana, suggerita con delicatezza ma persistenza, eleva il racconto di vendetta a una dimensione quasi mitologica, infondendo alla ricerca di Django una gravitas epica che trascende il mero intrattenimento di genere. L'amore per Broomhilda diventa la forza motrice che permette a Django di superare le sue catene fisiche e psicologiche, di imparare a combattere e, infine, a reclamare la sua dignità in un mondo che gliel'ha negata brutalmente.
Inutile dire che il film resta godibile dal primo all’ultimo fotogramma, un tripudio visivo e uditivo che cattura lo spettatore e non lo lascia andare, con trovate deliziose ed omaggi più o meno velati al cinema italiano degli anni ’60. La colonna sonora, ad esempio, è un eclettico tappeto sonoro che mescola brani originali in stile Morricone con inaspettate incursioni hip-hop e R&B, creando un contrasto straniante che è ormai marchio di fabbrica tarantiniano. Il più clamoroso tra gli omaggi è forse il cameo di Franco Nero stesso, l'originale Django, in una scena memorabile che è un vero e proprio passaggio di consegne generazionale, un tributo affettuoso e un sigillo di approvazione. Ma l'influenza del western all'italiana si manifesta anche nella regia, con quei primissimi piani sugli occhi, i duelli stilizzati e l'enfasi sulla violenza viscerale che non risparmia nulla pur di comunicare l'orrore del contesto.
Si aggiunga che l’opera, oltre che dall’estro del regista, viene nobilitata da un Christoph Waltz titanico. La sua interpretazione di Schultz non è solo maiuscola, ma un tour de force di carisma, intelligenza affilata e una letale, cortese brutalità che in effetti getta ombra sugli altri protagonisti, riducendoli quasi a meri comprimari. Waltz, qui al suo secondo trionfo tarantiniano dopo il colonnello Hans Landa di Bastardi Senza Gloria, dimostra ancora una volta una padronanza unica del linguaggio, una capacità di far volteggiare le parole come lame affilate, rendendo ogni dialogo un piccolo capolavoro teatrale. La sua figura di cacciatore di taglie "illuminato", con i suoi principi morali talvolta ambigui ma sempre rigorosi, funge da fulcro narrativo e morale per gran parte del film, spingendo Django non solo a sparare, ma a pensare e a emanciparsi. Anche Jamie Foxx, nel ruolo del protagonista, offre una performance di notevole spessore, evolvendo da schiavo silente e brutalizzato a icona di vendetta implacabile, ma la forza della presenza scenica di Waltz è ineguagliabile.
Decine le scene da ricordare, veri e propri gioielli incastonati nella trama. Dalla sobria uccisione del finto sceriffo Bill Sharp, che con la sua efficienza fulminante svela la vera natura di Schultz, con un’altrettanto sobria e disarmante spiegazione pubblica di come in realtà lo sceriffo fosse un ladro di bestiame sotto mentite spoglie – il tutto pronunciato con deliziosa ampollosità e verve ironica, davanti a cento canne spianate verso di lui, in un crescendo di tensione e surreale comicità. Oppure la scena clou, il momento di non ritorno, quando lo spietato e raffinato negriero Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio magnificamente repellente, il cui personaggio incarna la banalità del male travestita da eleganza del Sud) si accorge della vera natura della visita di Schultz e Django nella sua magione, Candyland (un nome che evoca l'inferno sotto mentite spoglie), e inscena un drammatico confronto nella sala da pranzo, tra porcellane finissime e posate argentate. Questa sequenza è un vertice di scrittura e recitazione, un duello intellettuale che degenera in un bagno di sangue, sottolineando come la civiltà apparente possa nascondere la barbarie più efferata. E non si può non menzionare la figura di Stephen, interpretato da un Samuel L. Jackson inquietante e indimenticabile, simbolo agghiacciante di un'oppressione interiorizzata e della complicità nel male.
Come in ogni film di Tarantino, l’oceano di citazioni, di omaggi, di furti cinefili è talmente vasto che non se ne scorgono i confini, rendendo la visione un'esperienza stratificata che appaga sia l'appassionato di cinema che il neofita. Ogni inquadratura, ogni battuta, è intrisa di un amore smodato per la settima arte, un mosaico di riferimenti che non si limita al genere western ma attinge a piene mani dal blaxploitation, dal kung-fu, e dal cinema d'autore più disparato, senza mai cadere nel mero esercizio di stile. Tarantino non cita, reinventa. E per dirla con Leopardi, in un mare così profondo e stimolante: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”... un naufragio che è, in realtà, la più dolce delle scoperte.
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