Dogville
2003
Vota questo film
Media: 4.25 / 5
(8 voti)
Regista
Un palcoscenico vuoto, nero come la pece di un’anima dannata. Linee di gesso tracciate sul pavimento a indicare muri, porte, persino un cespuglio di uva spina. Nomi scritti a caratteri cubitali: "Elm Street". Un cane invisibile abbaia, ma il suo contorno è disegnato, un’assenza resa presente. L’incipit di Dogville non è un semplice vezzo stilistico, un’eccentricità da autore nordeuropeo; è il dispositivo scenico che funge da dichiarazione di poetica e, al contempo, da bisturi. Lars von Trier, con la precisione di un chirurgo e la crudeltà di un entomologo, spoglia il cinema della sua pelle illusionistica per eseguire una radiografia morale a cielo aperto. Siamo di fronte a un film che si nega come film per diventare qualcos’altro: un’aula di tribunale, un laboratorio etico, un moderno morality play.
L'eredità di Bertolt Brecht e del suo "effetto di straniamento" (il celeberrimo Verfremdungseffekt) è talmente palese da diventare il codice sorgente dell'opera. Von Trier non vuole che lo spettatore si immerga empaticamente nella cittadina di Dogville, sperduta tra le Montagne Rocciose. Al contrario, vuole che resti lucido, distante, un giurato chiamato a osservare le prove di un esperimento sull'ipocrisia umana. La scenografia assente, la narrazione suddivisa in un prologo e nove capitoli scanditi da una voce fuori campo (quella, biblica e implacabile, di John Hurt nella versione originale), tutto concorre a ricordarci costantemente la finzione del mezzo. Eppure, proprio da questa artificiosità radicale scaturisce una verità più lancinante e universale. Rimuovendo il contesto realistico, von Trier isola le azioni umane nella loro essenza più nuda e terribile. Le pareti invisibili di Dogville non nascondono nulla; ogni peccato, ogni sussurro, ogni sguardo carico di lussuria o disprezzo è esposto alla nostra vista, e al nostro giudizio.
La trama, nella sua struttura, ha la semplicità di un apologo. Grace (una Nicole Kidman che si offre al martirio con una performance di vulnerabilità quasi insostenibile), una donna bellissima e in fuga da misteriosi gangster, trova rifugio nella piccola e apparentemente virtuosa comunità di Dogville. I suoi abitanti, guidati dal filosofo e moralista mancato Tom Edison Jr. (Paul Bettany), decidono di "accettare il dono" della sua presenza, a patto che lei si renda utile. Inizia così una discesa progressiva e inesorabile negli abissi della natura umana. La gentilezza iniziale, mai disinteressata, si trasforma in pretesa, la pretesa in sfruttamento, lo sfruttamento in abuso sistematico, fino alla schiavitù e alla violenza più abietta. Ogni abitante, dalla devota madre di famiglia all'onesto fruttivendolo, contribuisce con il proprio piccolo, quotidiano atto di malvagità. Dogville diventa la sineddoche del mondo, un microcosmo in cui il patto sociale si rivela per quello che è: un fragile accordo di convenienza, pronto a saltare non appena il potere cambia di mano.
Von Trier, che notoriamente non ha mai messo piede negli Stati Uniti, non sta realizzando un pamphlet anti-americano. Sarebbe una lettura superficiale e limitante. Dogville è piuttosto una critica feroce all'archetipo, all'utopia puritana della "piccola città dal cuore grande", quel mito fondativo immortalato da Norman Rockwell e Frank Capra. È un attacco all'immagine che l'Occidente ha di sé stesso: una comunità di individui probi e laboriosi la cui moralità è, in realtà, un lusso che si possono permettere solo finché non costa nulla. L'arrivo di Grace, l'Altro, il corpo estraneo, agisce come un catalizzatore chimico che svela la latente tossicità del sistema. Lei è un dono, sì, ma un dono che la comunità non sa come gestire se non consumandolo, degradandolo, per poi rigettarlo.
È impossibile non pensare, assistendo alla progressiva umiliazione di Grace, alla "Seeräuber-Jenny" (Jenny dei Pirati), la canzone contenuta ne L'opera da tre soldi di Brecht e Weill. Anche lì, una sguattera umiliata sogna il giorno in cui una nave nera con un teschio sulla bandiera arriverà al porto per chiederle chi dovrà essere ucciso. La catarsi finale di Dogville è la messa in scena, letterale e spietata, di quella fantasia di vendetta. Quando il padre di Grace (un James Caan che appare come un Padrino de-mitizzato, un gangster-filosofo) arriva per riprenderla, il dibattito tra i due non è più sulla colpa degli abitanti, ma sulla natura del perdono. Grace, nella sua infinita capacità di comprensione, si è resa colpevole di arroganza: l'arroganza di perdonare atti che non le competeva perdonare, perché non commessi contro di lei ma contro i principi stessi di umanità. La sua conclusione è terribile e logicamente ineccepibile: per rendere il mondo un posto migliore, forse Dogville non dovrebbe esistere affatto.
La violenza dell'epilogo, coreografata con una lentezza glaciale sulle note di "Young Americans" di David Bowie durante i titoli di coda (un contrappunto sonoro di genio assoluto), ha la stessa funzione catartica e disturbante del finale di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini. Non è intrattenimento, non è spettacolo. È la chiusura di un teorema. La macchina da presa a mano, marchio di fabbrica del Dogma 95 da cui von Trier si stava ormai congedando, pedina i personaggi in questo non-luogo, creando un senso di claustrofobia paradossale in uno spazio tecnicamente infinito. La recitazione, privata del sostegno di oggetti e ambienti, diventa iper-realistica, un concentrato di gesti e sguardi a cui è affidato tutto il peso del dramma. Il cast stellare (Lauren Bacall, Stellan Skarsgård, Ben Gazzara, Chloë Sevigny) accetta la sfida, offrendo interpretazioni scarnificate, quasi documentaristiche, che rendono la parabola ancora più credibile e, dunque, più sconvolgente.
Dogville è un'opera che respinge lo spettatore, lo sfida, lo accusa. Ci chiede se anche noi, messi nelle stesse condizioni, non avremmo iniziato a spostare la linea del gesso della nostra moralità, un centimetro alla volta. È un saggio di etologia umana travestito da film, un trattato di misantropia filosofica che trova le sue radici tanto in Hobbes quanto in certa letteratura americana del peccato, da Hawthorne a Shirley Jackson. Il dettaglio più agghiacciante, forse, è l'unico superstite della purga finale: il cane Moses, l'unico a cui viene concessa quella grazia che alla protagonista umana è stata così brutalmente negata. Forse perché, nel mondo secondo von Trier, la bestialità onesta è preferibile all'umanità ipocrita. Un capolavoro crudele, necessario, impossibile da amare ma, una volta visto, impossibile da dimenticare. Uno specchio nero puntato dritto in faccia alla nostra civiltà.
Attori Principali
Galleria








Commenti
Loading comments...
