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Donne sull'orlo di una crisi di nervi

1988

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Un melodramma sotto anfetamine. Una farsa da camera decostruita e riassemblata con colla vinilica e lustrini. Un’opera pop che pulsa al ritmo cardiaco accelerato di una nazione appena risvegliatasi da un sonno lungo e grigio. Definire Donne sull'orlo di una crisi di nervi è un esercizio di funambolismo critico, perché il capolavoro di Pedro Almodóvar del 1988 sfugge alle etichette con la stessa agilità con cui i suoi personaggi schivano (o cercano) proiettili, sonniferi e rivelazioni sentimentali. È un film che deflagra sullo schermo, un carnevale cromatico e narrativo che ha consolidato il suo autore come la voce più vibrante e irriverente del cinema europeo post-moderno, e che ha immortalato lo spirito febbrile e liberatorio della Movida madrileña.

Per cogliere la magnitudo di quest'opera, bisogna prima di tutto contestualizzarla. La Spagna del 1988 non è più la nazione austera e repressa del franchismo. È un paese in piena esplosione culturale, un calderone di edonismo, creatività e trasgressione che cerca di recuperare decenni di tempo perduto. Almodóvar, più di ogni altro, diventa il cantore di questa rinascita. I suoi colori primari, saturi fino all'inverosimile – il rosso lacca delle unghie e del telefono, il blu elettrico degli abiti, il giallo acido degli arredi – non sono una semplice scelta estetica; sono un manifesto politico. Sono uno schiaffo visivo al bianco e nero del regime, un'affermazione di vitalità, di artificio gioioso contro un naturalismo imposto e soffocante. L'appartamento di Pepa (una monumentale Carmen Maura), con la sua terrazza che si affaccia su una Madrid da cartolina palesemente finta, non è un'abitazione: è un palcoscenico, un non-luogo psicanalitico dove le nevrosi del privato diventano spettacolo universale. È il Globe Theatre della disperazione amorosa in technicolor.

La struttura narrativa è un omaggio tanto alla screwball comedy hollywoodiana di Howard Hawks e Preston Sturges quanto al vaudeville francese. Un balletto di porte che si aprono e si chiudono, di equivoci, di entrate e uscite a tempo perfetto che creano un cortocircuito comico irresistibile. Ma sotto questa superficie da commedia degli equivoci, Almodóvar innesta il DNA del melodramma sirkiano. Come Douglas Sirk in film come Secondo amore o Lo specchio della vita, Almodóvar è affascinato dalle emozioni femminili portate all'estremo, dalla sofferenza che diventa estetica. La differenza cruciale è che Almodóvar prende il sublime patetismo di Sirk e lo getta nel frullatore del camp e dell'assurdo. Le sue eroine non piangono sommessamente in lussuosi salotti; urlano, incendiano letti, preparano gazpacho corretti con barbiturici e inseguono i loro amanti fedifraghi con una determinazione che sconfina nella follia. La crisi di nervi non è un crollo, ma una forma di ribellione.

Il vero motore drammaturgico, il feticcio tecnologico che orchestra l'intera sinfonia del caos, è la segreteria telefonica. Mai prima di allora questo oggetto era stato elevato a un ruolo così centrale, quasi da protagonista. Il film è una profetica, esilarante meditazione sulla disconnessione nell'era della comunicazione di massa. Pepa, attrice di doppiaggio la cui voce è letteralmente scissa dal suo corpo, passa l'intero film a cercare di stabilire un contatto reale, un'ultima conversazione con l'uomo che l'ha abbandonata tramite un messaggio registrato. Le voci si accumulano, si sovrappongono, si perdono nel nastro magnetico, creando una cacofonia di desideri frustrati e messaggi non recapitati. La segreteria telefonica diventa il mausoleo della loro relazione, un archivio di promesse non mantenute. In questo, il film anticipa di decenni le nostre attuali ansie digitali, la tirannia delle spunte blu di WhatsApp, le mail senza risposta, i fantasmi delle relazioni vissute attraverso uno schermo. È una farsa analogica su un problema perennemente digitale.

Ogni personaggio che entra nell'attico di Pepa è un satellite impazzito della sua orbita emotiva, un catalizzatore di ulteriore caos. C'è Candela (María Barranco), l'amica ingenua terrorizzata perché il suo ex amante è un terrorista sciita; Marisa (Rossy de Palma), la fidanzata algida e sdegnosa del figlio di Iván, la cui espressività cubista la rende una maschera vivente di Picasso; e Lucía (Julieta Serrano), l'ex moglie di Iván, legalmente pazza e comicamente minacciosa, fuggita dal manicomio e armata di pistole. In questo gineceo sull'orlo di una crisi collettiva, gli uomini sono figure periferiche, assenti o irrimediabilmente inadeguate. Sono voci (come Iván, il grande amore/assente), o corpi goffi e infantili (come suo figlio Carlos, un giovane e impacciato Antonio Banderas). Il film è un trionfo della solidarietà femminile, che emerge non da un'ideologia astratta, ma dalla necessità pragmatica di sopravvivere a un mondo disegnato da uomini inetti. Si aiutano a vicenda, si mentono a vicenda, si drogano a vicenda (involontariamente), ma alla fine formano un fronte comune contro l'assurdità della loro condizione.

Almodóvar dirige questo manicomio con la precisione di un orologiaio svizzero e l'estro di un pittore surrealista. La sceneggiatura, basata su La voce umana di Jean Cocteau ma trasfigurata in tutt'altro, è una macchina a orologeria perfetta. Ogni elemento, anche il più bizzarro, viene introdotto per poi tornare con una funzione precisa. Il gazpacho, menzionato all'inizio, diventa la pistola di Čechov in forma liquida, un deus ex machina culinario che risolve (o meglio, addormenta) la tensione. Le continue corse sul Mambo Taxi, guidato da un autista punk che offre un campionario di servizi on-demand, non sono semplici gag, ma metafore del viaggio frenetico e senza meta dei personaggi attraverso la giungla urbana di Madrid.

Meta-testualmente, il film è una riflessione sul potere dell'artificio. Pepa doppia film stranieri, prestando la sua voce a dive come Joan Crawford. La sua vita imita l'arte, ma in una versione grottesca e accelerata. La sua professione sottolinea il tema della scissione tra immagine e suono, tra ciò che si vede e ciò che si sente, tra la realtà e la sua rappresentazione. Almodóvar non cerca il realismo; lo rifugge deliberatamente. Le retroproiezioni nelle scene in taxi sono volutamente posticce, un cenno al cinema classico hollywoodiano che ne sottolinea la natura di finzione. Questo non è un difetto, ma una dichiarazione d'intenti: la verità emotiva, ci dice il regista, può essere trovata più potentemente nell'eccesso e nell'iperbole che nella mimesi del reale. Come in un'opera lirica o in un fumetto di Roy Lichtenstein, i sentimenti sono così grandi che possono essere contenuti solo in una cornice stilizzata e sgargiante.

Donne sull'orlo di una crisi di nervi è più di un film; è un distillato culturale, un'esplosione di genio che ha ridefinito la commedia moderna. Ha dimostrato che si poteva essere profondamente seri parlando di sentimenti senza rinunciare alla leggerezza, che si poteva essere intellettuali e popolari allo stesso tempo, e che il kitsch, se maneggiato con intelligenza e affetto, può diventare una forma d'arte sublime. È un film che, a ogni visione, rivela nuovi strati di complessità sotto la sua superficie smaltata e chiassosa. È il suono di un cuore spezzato che impara a ridere di se stesso, e il battito irrefrenabile di una Spagna che, finalmente, si era tolta il lutto e aveva indossato il suo vestito più colorato per andare a ballare.

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