Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Doppio gioco

1949

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La favola dello scorpione e della rana, narrata con inflessione caraibica da un soldato britannico prigioniero, funge da architrave tematica e chiave di volta ermeneutica per l’intera architettura di Doppio Gioco. Non è un semplice aneddoto, un intermezzo esotico nel grigiore rurale dell’Irlanda del Nord; è il codice genetico del film, la sua dichiarazione di poetica. "It's in my nature", "è la mia natura", sibila lo scorpione metaforico. E la natura, in questo capolavoro di Neil Jordan del 1992, è una forza ineluttabile, un labirinto di specchi deformanti in cui identità nazionali, sessuali e personali si frantumano e ricompongono in forme impreviste e destabilizzanti. Il film stesso è uno scorpione: ci traghetta su un fiume di convenzioni di genere – il thriller politico, il dramma della prigionia – solo per pungerci a tradimento a metà del guado, rivelando la sua vera, sconcertante natura.

La prima parte dell'opera è un saggio magistrale di depistaggio narrativo. Jordan costruisce un thriller teso, quasi convenzionale, immerso nel fango e nella nebbia del conflitto nordirlandese. Abbiamo i soldati dell’IRA, tra cui il nostro protagonista Fergus (un immenso, dolente Stephen Rea), la sua gelida e fanatica commilitone Jude (una Miranda Richardson che trasuda pericolo come un rettile velenoso), e il prigioniero, Jody (un Forest Whitaker dalla vitalità contagiosa). Ma sotto la superficie del meccanismo di genere, Jordan semina già i germi della sovversione. Il rapporto che si instaura tra carceriere e prigioniero trascende la dialettica hegeliana del servo-padrone. Diventa un’intimità forzata, un dialogo socratico sulla vita, l’amore, il cricket e la natura umana. Jody non è una vittima passiva; è un narratore, un seduttore, un catalizzatore che, con la sua umanità debordante, incrina le certezze ideologiche di Fergus. Gli affida un compito, un’ultima volontà che è insieme una maledizione e una promessa di redenzione: trovare la sua amata, Dil, a Londra.

E qui il film compie la sua prima, radicale metamorfosi. Con la morte di Jody, l'opera abbandona i toni del thriller politico per sprofondare nei fumi e nelle luci al neon di un noir metropolitano, intriso di un melò disperato che avrebbe fatto la gioia di un Douglas Sirk o di un Fassbinder. Londra non è la terra promessa, ma un altro tipo di prigione, un dedalo di solitudini dove Fergus, ora sotto falso nome, cerca di espiare una colpa che non riesce a definire. La ricerca di Dil diventa un'ossessione, un tentativo di dare un senso a un sacrificio insensato. L'incontro con lei, in un pub dalla clientela variopinta, è il vero cuore pulsante del film. Dil (interpretata da un Jaye Davidson la cui androginia magnetica e quasi ultraterrena fu un colpo di genio del casting) è una creatura di pura superficie: trucco pesante, abiti vistosi, una fragilità dissimulata da una sfrontatezza aggressiva. Fergus se ne innamora, o forse si innamora del fantasma di Jody che vede in lei, o forse ancora si innamora dell'idea di poter mantenere una promessa, l'unica cosa solida in un mondo liquido.

Poi, la puntura dello scorpione. La Rivelazione. Quella che, all'epoca, fece sussultare le platee di tutto il mondo e che la Miramax, in una delle campagne di marketing più astute e controverse della storia, implorò critici e spettatori di non svelare. Oggi, quell'elemento è entrato nella cultura popolare, ma analizzarlo solo come un "colpo di scena" sarebbe un errore madornale, una banalizzazione che ne tradirebbe la profondità. Il punto non è cosa viene rivelato, ma come quella rivelazione agisce da detonatore, scardinando ogni certezza del protagonista e, di riflesso, dello spettatore. È un terremoto semiotico che costringe a rileggere ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo scambiato fino a quel momento. La reazione iniziale di Fergus è quella, viscerale e violenta, dell'uomo la cui mascolinità eteronormativa è stata messa in scacco. Ma è qui che il film ascende al sublime. Superato lo shock, Fergus non fugge. Resta. La sua umanità, la sua capacità di empatia – la stessa che Jody aveva intuito in lui nella baracca in Irlanda – trionfa sul pregiudizio. L’amore che prova per Dil non è annullato dalla scoperta, ma trasfigurato in qualcosa di più complesso, più puro: una forma di devozione, di protezione che va oltre le categorie binarie di genere e sessualità.

Jordan orchestra un'operazione di trasmutazione alchemica che ricorda, per certi versi, il cinema di Almodóvar, ma spogliato di ogni esuberanza camp e calato in una malinconia crepuscolare tutta britannica. Se il regista spagnolo celebra l'identità fluida con gioia carnevalesca, Jordan la esplora con una gravitas quasi tragica. Il doppio gioco del titolo non è solo quello spionistico tra IRA e governo britannico. È il doppio gioco dell'identità che ogni personaggio è costretto a recitare: Fergus è un terrorista con l'anima di un santo, Jody un soldato con la sensibilità di un poeta, Jude una donna che ha sacrificato la sua femminilità sull'altare dell'ideologia, e Dil una donna che abita un corpo maschile. Tutti indossano una maschera, tutti recitano una parte imposta dalla "natura" o dalle circostanze.

Il film è intessuto di parallelismi letterari e cinematografici. Fergus, novello Orfeo sceso in un Averno metropolitano per salvare l'ombra di un amore perduto, si muove in un paesaggio che ha i contorni del romanzo di Graham Greene, dove la colpa, la fede e la redenzione si scontrano in un'eterna partita a scacchi. La riapparizione di Jude, trasformata in una spietata femme fatale con caschetto biondo platino e pistola automatica, trascina il film nei territori più classici del noir, evocando le dark lady di un Out of the Past o di The Killers. Lei è la personificazione della "natura" ineluttabile dello scorpione: l'ideologia che non può fare a meno di pungere, di distruggere ogni legame umano che non sia funzionale alla Causa.

Inserito nel suo contesto storico, Doppio Gioco fu un atto di coraggio intellettuale. Uscito in un periodo in cui i "Troubles" erano ancora una ferita aperta e sanguinante, il film si rifiutò di offrire una lettura politica manichea. Non ci sono eroi o cattivi, solo esseri umani intrappolati in una spirale di violenza ereditata. L'IRA non è né glorificata né demonizzata, ma mostrata come un microcosmo di individui con motivazioni e gradi di umanità differenti. La scelta di Jordan non è politica, ma umanistica: usare il conflitto come un laboratorio estremo per studiare come l'identità, l'amore e la lealtà possano sopravvivere – o soccombere – sotto una pressione intollerabile.

Il finale, con Fergus in prigione che riceve la visita di Dil, è di una struggente, agrodolce perfezione. Raccontandole la storia dello scorpione e della rana, Fergus accetta finalmente la sua natura, non di terrorista o di amante, ma di uomo capace di un gesto di amore assoluto e sacrificale. Ha attraversato il fiume, è stato punto, ma ha portato in salvo la persona che doveva proteggere. In quell'ultima, malinconica scena, Doppio Gioco chiude il cerchio, rivelandosi non come un thriller, non come una storia d'amore, non come un film sul conflitto irlandese o sull'identità di genere, ma come tutte queste cose insieme. Un'opera polifonica e inclassificabile, una meditazione profonda e commovente sulla prigione ineluttabile della nostra natura e sulla possibilità, rara e preziosa, di trascenderla attraverso un atto di empatia.

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