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La Fiamma del Peccato

1944

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Tralasciando il titolo orribile che gli fu affibbiato dalla distribuzione italiana – un generico, quasi didascalico “La Fiamma del Peccato” che ne appiattisce la sottigliezza – stiamo parlando, insieme a “Il Grande Sonno” di Howard Hawks, del più bel noir della storia del cinema. L'originale "Double Indemnity", clausola assicurativa che raddoppia l'indennizzo in caso di morte accidentale in circostanze specifiche, è di per sé un presagio, una molla narrativa e, soprattutto, un simbolo di quella ricerca della massima posta in gioco che anima i protagonisti, delineando fin dal principio un orizzonte di avida perversione e calcolo macabro.

Ed è quasi paradigmatico che a girarlo sia stato quel grande maestro della commedia che fu Billy Wilder, e a sceneggiarlo quel venerato scrittore che fu Raymond Chandler. Questo connubio, apparentemente strano, fu in realtà una scintilla incendiaria. Wilder, con la sua ineguagliabile abilità nel dissezionare le ipocrisie e le bassezze umane attraverso un bisturi affilato di sarcasmo e cinismo – qualità già evidenti nelle sue commedie più oscure o nelle successive, come l'amara Viale del Tramonto – trovò nel noir il terreno fertile per esplorare le derive morali dell'uomo. La sua direzione è precisa, implacabile, capace di trasformare ogni ombra, ogni angolo della scenografia in un tassello della discesa agli inferi dei personaggi. Chandler, d'altro canto, portava il peso e la gravità della sua prosa hard-boiled, la secchezza del dialogo, l'acume psicologico e la disillusione intrinseca del suo mondo letterario. La loro collaborazione fu notoriamente tempestosa – si narra di scintille e scontri quotidiani nel processo di scrittura – ma da questa frizione nacque una sceneggiatura di una compattezza e un'eleganza quasi matematiche, un vero capolavoro di struttura e dialoghi taglienti.

L’opera si potrebbe condensare proprio in questi due aspetti: un grande regista e un grande scrittore che concepiscono e forgiano un autentico capolavoro avendo come punto di partenza un romanzo non certo sublime come quello di James M. Cain, “La morte paga doppio”. Il testo di Cain era potente nel suo nucleo di perversione e desiderio, ma era una base più grezza; Wilder e Chandler lo distillano, lo purificano, aggiungendovi strati di ambiguità morale, una tensione erotica palpabile e una disperazione palpabile che lo innalzano al di là della semplice cronaca di un delitto. La loro riscrittura non è una mera trasposizione, ma una reinterpretazione che modella il genere noir stesso, definendo molti dei suoi tropi più duraturi.

La storia è quella di un grigio assicuratore, Walter Neff, interpretato con una miscela perfetta di ingenuità sedotta e opportunismo strisciante da Fred MacMurray, che si innamora perdutamente di una donna oscura e fatale, Phyllis Dietrichson, divenendone l’amante. Neff non è un criminale nato, ma un uomo comune, un rappresentante del grigiore borghese americano, la cui caduta è tanto più terrificante quanto più è graduale e inesorabile. L’uomo verrà plagiato a tal punto dalla sensualità gelida e dalla manipolazione spietata della donna – Barbara Stanwyck con una parrucca bionda cheap, unghie affilate e un ghigno che è già un manifesto del male – che progetterà l’omicidio del marito, dopo aver stipulato sulla sua vita una polizza che prevede il doppio dell’indennizzo in caso di morte in circostanze rare (da qui il titolo originale “double indemnity”). Il piano, apparentemente perfetto nella sua diabolica logica, è intriso di un'arroganza che precede la caduta.

E, come spesso accade nelle tragedie classiche travestite da pulp fiction, qualcosa nel piano diabolico dei due andrà irrimediabilmente storto. Il film si sviluppa in una spirale claustrofobica di sospetto e paranoia, con le ombre che si allungano non solo sui muri delle case, ma anche sulle anime dei personaggi. La grandiosa l’interpretazione di Barbara Stanwyck nel ruolo della Dark Lady è un capitolo a sé: la sua Phyllis non è semplicemente malvagia, è una figura di magnetica repulsione, una donna che incarna la corruzione della bellezza e l'inganno della passione. Con la sua voce roca e i suoi occhi penetranti, Stanwyck crea un'icona del femme fatale noir, un archetipo che sarà emulato ma mai superato. Non è un’amante folle di passione, ma una stratega del desiderio altrui, un burattinaio di carne e sangue.

Quella di “Double Indemnity” è un’opera al nero, cupa, ossessionata dalla notte e dai suoi baluginanti confini, in cui la luce artificiale dei lampioni e delle insegne al neon taglia l'oscurità con un'angoscia quasi fisica. La fotografia di John F. Seitz è un'ode al chiaroscuro, con le celebri veneziane che proiettano strisce d'ombra sui volti e negli ambienti, creando gabbie visive che imprigionano i personaggi ancor prima che i nodi della trama si stringano attorno a loro. Ogni inquadratura è saturata di un'atmosfera di fatalismo ineluttabile, riflettendo lo stato d'animo dei protagonisti, intrappolati nelle conseguenze delle loro scelte peccaminose.

Memorabili, infine, le scene del protagonista al dittafono mentre in un lunghissimo e avvincente flashback ripercorre tutta la vicenda, confessando i suoi crimini al capo dell'ufficio, Barton Keyes, interpretato con la consueta profondità e un'inaspettata umanità da Edward G. Robinson. Questa struttura narrativa, tipica del noir – si pensi a Viale del Tramonto dello stesso Wilder o a Detour – non è un mero espediente stilistico, ma una componente essenziale della tragedia. Sappiamo fin dall'inizio della morte e del fallimento, ma è il "come" che ci tiene incollati, è la discesa morale, il processo di corruzione dell'anima che viene svelato. La voce fuori campo di Neff, cinica e disillusa, crea una distanza quasi brechtiana, permettendoci di osservare la sua caduta con un senso di ineluttabile presagio, trasformando la confessione in un atto di auto-analisi e condanna.

Un pilastro della Settima Arte da venerare e studiare a fondo, la cui influenza permea ancora oggi il cinema, non solo quello di genere. Un manuale di sceneggiatura, di regia, di recitazione e, soprattutto, di disperata umanità, che continua a brillare con la sua cupa, inestinguibile fiamma.

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