Dov'è il mio corpo?
2019
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Regista
Una mano recisa striscia sul pavimento di un laboratorio parigino. Non è l'incipit di un racconto dell'orrore né la gag macabra di una commedia nera. È l'inizio di un'Odissea in formato ridotto, un'epopea sensoriale che capovolge la prospettiva e ci costringe a riconsiderare il rapporto tra le parti e il tutto, tra la memoria e la carne. Con questa immagine, tanto grottesca quanto poetica, Jérémy Clapin non si limita a presentare la premessa del suo lungometraggio d'esordio, "Dov'è il mio corpo?", ma definisce un intero programma estetico e filosofico: raccontare la frammentazione dell'essere nell'epoca della disconnessione, partendo dal più letterale e corporeo dei frammenti.
Il film, adattamento del romanzo "Happy Hand" di Guillaume Laurant (sì, proprio il co-sceneggiatore de "Il favoloso mondo di Amélie", un dettaglio che si rivelerà tutt'altro che casuale), si biforca immediatamente in due linee narrative distinte ma destinate a una fatale convergenza. Da un lato, in un bianco e nero crudo e tattile, seguiamo la disperata e avventurosa fuga della mano. Un viaggio picaresco attraverso i pericoli della metropoli – piccioni famelici, ratti aggressivi nelle viscere della metropolitana, la pioggia battente – che assume i contorni di un film muto, un survival movie dove ogni superficie, ogni ostacolo, ogni suono è percepito con una purezza quasi primordiale. La mano non vede, ma ricorda attraverso il tocco: la sabbia evoca un'infanzia lontana, i tasti di un pianoforte una passione interrotta, il tessuto di un vestito un amore nascente. È un cinema della sinestesia, dove il tatto diventa memoria e la memoria si fa motore dell'azione.
Dall'altro lato, a colori, si dipana il racconto in flashback di Naoufel, il giovane a cui quella mano un tempo apparteneva. Orfano marocchino trapiantato in una Parigi fredda e indifferente, Naoufel è l'incarnazione di una gioventù alla deriva. Pizzaiolo per necessità, sognatore per vocazione, la sua esistenza è un catalogo di fallimenti e occasioni mancate. Vive in un limbo, sospeso tra il trauma della perdita dei genitori – musicisti e scienziati, un'unione quasi mitologica di arte e ragione – e un futuro che non riesce a plasmare. La sua solitudine non è quella romantica e stilizzata del cinema francese più convenzionale; è una solitudine tangibile, fatta di appartamenti squallidi, di dialoghi mancati attraverso un citofono e di un'inettitudine che lo rende quasi invisibile al mondo.
Qui emerge, potente, il contrasto con l'universo di Laurant/Jeunet. Se "Amélie" dipingeva una Parigi sognante, un Montmartre da cartolina abitato da personaggi eccentrici e benevoli, la Parigi di Clapin è il suo negativo fotografico. È una città di periferie grigie, di lavori precari e di solitudini urbane. L'ottimismo cromatico e la fantasia di Jeunet lasciano il posto a una palette desaturata e a un realismo quasi documentaristico. È come se Clapin avesse preso lo stesso materiale genetico – un protagonista disadattato in cerca di connessione – per condurre un esperimento opposto, dimostrando che la stessa città può essere, a seconda dello sguardo, un luogo magico o una prigione a cielo aperto. Naoufel non è Amélie; non manipola il destino altrui per sentirsi meno solo, ma è lui stesso a essere sballottato da un destino che sembra averlo preso di mira sin dall'infanzia.
La narrazione procede per giustapposizione, creando un dialogo costante tra l'epica in miniatura della mano e il dramma esistenziale di Naoufel. Mentre la mano supera prove fisiche che ne testimoniano la resilienza e la volontà, Naoufel soccombe alla propria inerzia. L'incontro con la bibliotecaria Gabrielle, avvenuto per caso grazie a un ordine di pizza e a un citofono, diventa il catalizzatore di un cambiamento. Naoufel, per la prima volta, agisce: si fa assumere come apprendista falegname dallo zio di lei, non tanto per passione verso il mestiere, ma per orbitare attorno a quell'unica, possibile, fonte di luce. È un tentativo goffo, quasi patetico, di forzare la mano al destino, di deviare una traiettoria che sembra già scritta.
Il film di Clapin è una profonda disamina sulla natura del fato e del libero arbitrio, un tema che attraversa la narrazione attraverso metafore ricorrenti. La mosca, che Naoufel cerca ossessivamente di catturare, rappresenta il caos, l'imprevedibile che sfugge a ogni controllo. Il registratore a nastro, su cui incide i suoni del mondo, è il suo tentativo di ordinare quel caos, di dargli una forma, una sequenza. La vera questione ontologica del film, però, è racchiusa in un dialogo con Gabrielle: è possibile cambiare il proprio destino? Si può "prendere in contropiede il fato" con un gesto inaspettato, un "salto" nel vuoto? Naoufel ci prova, ma ogni suo tentativo di controllare gli eventi sembra condurlo più vicino all'inevitabile incidente che lo priverà della sua mano, e con essa, della sua identità di pianista, di falegname, di uomo capace di "fare".
L'animazione di Clapin, realizzata con una tecnica ibrida che sovrappone il disegno 2D a modelli 3D, è fondamentale per la riuscita dell'opera. Conferisce ai personaggi e agli ambienti un peso, una gravità e una fisicità rari nel cinema d'animazione, allontanandolo tanto dalla perfezione levigata della Pixar quanto dalla stilizzazione grafica del Sol Levante. Il risultato è un'opera che respira, in cui si avverte la grana della realtà. Questa tattilità visiva è il perfetto corrispettivo della ricerca sensoriale della mano e dell'alienazione corporea di Naoufel, un'eco quasi kafkiana di un corpo che non si riconosce più come proprio. È un Frankenstein al contrario: non un corpo assemblato in cerca di un'anima, ma un'anima frammentata in cerca del proprio corpo.
La mano, in questo senso, diventa un "oggetto parziale" lacaniano, il pezzo mancante che simboleggia una perdita ben più profonda. La sua ricerca non è solo quella di una ricongiunzione fisica, ma è la ricerca di un senso, di un'origine del trauma. E quando finalmente raggiunge Naoufel, non assistiamo a una miracolosa riunione. La mano si posa accanto al corpo addormentato, lo osserva, e il suo viaggio finisce. Il ricongiungimento non è la soluzione, perché il problema non era la separazione fisica. Il problema era Naoufel.
Il finale, aperto e potentissimo, eleva il film da eccellente dramma animato a capolavoro filosofico. Dopo aver "rivisto" attraverso gli occhi della mano tutta la catena di eventi che ha portato all'incidente, Naoufel compie finalmente il suo "salto". Si lancia da una gru verso un tetto vicino, un gesto folle, un atto di fede nell'ignoto. E, per la prima volta, sorride. Non è un sorriso di felicità, ma di liberazione. Ha smesso di combattere il destino e ha scelto di accettare la caduta, la perdita, la mutilazione. Ha capito che per sentirsi di nuovo intero, doveva prima accettare di essere a pezzi. Lasciando andare la mano, Naoufel forse non ritrova il suo corpo, ma di sicuro trova sé stesso. In un'epoca che ci vuole performanti, completi e connessi, "Dov'è il mio corpo?" ci ricorda la bellezza sovversiva della fragilità e il potere catartico che si nasconde nell'accettare le proprie, insanabili, fratture.
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