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La Caduta - Gli Ultimi Giorni di Hitler

2004

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Hirschbiegel affronta la nemesi di ogni tedesco, il veto silenzioso che aleggia sulle menti, il non pronunciabile. Per decenni, il cinema tedesco aveva affrontato la sua Storia più oscura in modo obliquo, per allusione o con figure di contorno. La Caduta rappresenta un momento di rottura epocale nella cultura post-bellica, un atto di Vergangenheitsbewältigung (il superamento del passato) di una franchezza e un coraggio senza precedenti. Il regista non gira intorno al mostro; entra nella sua tana.

Nell’accostarsi a Hitler, da tedesco, lo inquadra nell’epilogo bruciante della sua parabola politica. Gli ultimi dieci giorni del Führer divengono metafora di fallimento ma anche di una perversa, nichilista forza spirituale nell’abbandono. Il bunker sotto la Cancelleria del Reich non è una semplice location, è un palcoscenico per un ultimo, wagneriano crepuscolo degli dèi, una tomba dove un'intera ideologia sceglie l'autocombustione piuttosto che la resa. Nell’aprile del ’45 Berlino è stretta d’assedio dai russi e dagli alleati. Hitler, rinchiuso in questo Kammerspiel dell'Apocalisse insieme alla sua corte di fedelissimi, si profonde in ordini marziali ai suoi generali, spostando armate fantasma su una cartina geografica che non risponde più alla realtà. Intima di resistere fino alla morte di ogni singolo uomo abile a combattere, mentre fuori il mondo brucia. In controluce, attraverso gli occhi ingenui e atterriti della sua segretaria, Traudl Junge—un espediente narrativo che ci rende testimoni diretti e quasi complici—, percepiamo i dubbi e le esitazioni degli ultimi uomini fedeli a Hitler: Goebbels e Himmler. Accanto a loro, figure come Magda Goebbels, una Medea del Nazionalsocialismo che si prepara al suo ultimo, terrificante atto di fede avvelenando i propri figli, incarnano la conseguenza più estrema di quell'ideologia: un nichilismo assoluto dove la fine del Reich deve coincidere con la fine di tutto.

Un’opera di straordinaria forza evocativa con uno strepitoso Bruno Ganz, sublime interprete di una scuola recitativa europea in via d’estinzione. La sua non è un'imitazione, è un'incarnazione. L'immensa controversia che il film scatenò in Germania e nel mondo nasce proprio dalla grandezza della sua performance. Ganz compie l'operazione più rischiosa e intelligente: rifiuta la demonizzazione e ci mostra l'umanità del mostro. Non per renderlo simpatico, ma per renderlo reale e, dunque, ancora più terrificante. Ci mostra un uomo fisicamente in rovina, piegato dal Parkinson, dipendente dalle iniezioni, capace di gesti di gentilezza quasi borghese verso la sua segretaria un attimo prima di ordinare la morte di migliaia di persone. È questa "umanità mostruosa" a disturbare, perché ci nega la comoda consolazione di un male astratto e ci costringe a confrontarci con la sua origine terribilmente umana. Memorabile la scena in cui Hitler analizza la situazione militare insieme ai suoi ufficiali. Nell’apprendere che anche l’ultima armata era impossibilitata a scagliare un contrattacco perché ormai decimata e in rotta, Hitler fa uscire tutti gli ufficiali di alto rango, poi si scaglia su quelli rimasti con inaudita nevrosi. Quel tremito, quella rabbia impotente, non sono quelli di un condottiero, ma il capriccio di un giocatore d'azzardo che ha perso tutto e ora rovescia il tavolo. Il suo urlo è il rantolo di un'ideologia che muore.

Fuori dalla stanza, gli ufficiali e le donne presenti ascoltano atterriti le parole di Hitler mentre l’agghiacciante spettro della sconfitta vola di sguardo in sguardo. La regia di Hirschbiegel è fondamentale in questo: adotta uno stile quasi protocollare, documentaristico, con una camera a mano che si muove tra i corridoi angusti del bunker come un testimone oculare. Questa scelta estetica è un deliberato e potente atto di contro-narrazione rispetto all'estetica trionfalistica di Leni Riefenstahl. Dove la Riefenstahl usava il cinema per deificare e creare miti monumentali, Hirschbiegel lo usa per demistificare, per mostrare la squallida, claustrofobica realtà dietro il mito. Il risultato è un confronto devastante con quella che Hannah Arendt definì "la banalità del male". Il film ci mostra che la fine del mondo, o almeno di quel mondo, non è arrivata con fragore epico, ma nel tanfo di cemento e disperazione di un sotterraneo, tra le isterie di burocrati, i deliri di un vecchio malato e il cianuro offerto ai propri figli come ultimo, perverso atto d'amore. È questa rappresentazione dell'Apocalisse come un evento squallido, patetico e profondamente umano a rendere La Caduta un capolavoro necessario e indimenticabile.

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