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Drive

2011

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Drive è forse l’ultimo colpo di coda del noir prima di fermare una corsa durata oltre settant’anni. O forse, più accuratamente, è uno dei suoi più vividi e perturbanti rinascimenti, un'immersione profonda nelle sue acque torbide ma con una tavolozza cromatica neon e un ritmo pulsante che lo distinguono dal passato. Il noir, dopotutto, non è mai morto del tutto; si è semplicemente adattato, mutando in neo-noir, acquisendo nuove forme e sensibilità, ma mantenendo intatta la sua essenza fatalista e disillusa.

Ma ha senso parlare di genere noir ai nostri tempi e in particolare per questo ottimo lavoro di Nicolas Winding Refn? Noi siamo convinti di sì. La risonanza dei temi classici del noir, come la corruzione morale, la vendetta ineludibile e la futilità dell'eroismo in un mondo cinico, non è mai stata più attuale. In un'epoca di incertezza e individualismo esacerbato, il richiamo del noir, con la sua esplorazione delle zone grigie dell'anima umana e delle strutture sociali collassanti, trova terreno fertile. Refn non si limita a omaggiare; egli decostruisce e ricompone il genere, infondendogli una nuova, inquietante vitalità.

Analizziamo i fattori che compongono una classica storia noir degli anni cinquanta (il decennio di maggior fulgore): i protagonisti sono spesso perduti nella loro vacillante moralità, ubriaconi, rapinatori, prostitute, assassini, falliti, picchiatori, gente che è stata messa ai margini della società e cova verso di esso un rancore misto a cinismo e disinganno che conferiscono alla storia un sapore acre, di sconfitta stagnante. Figure emblematiche come quelle tratte dalle pagine di Raymond Chandler o Dashiell Hammett, investigatori privati e antieroi forgiati dalla dura realtà post-bellica, popolavano un universo dove la legge era un concetto malleabile e la giustizia un'illusione. Il loro era un nichilismo esistenziale, la consapevolezza di essere pedine in un gioco molto più grande e spesso senza senso.

Il protagonista di Drive non ha nome, è un pilota che opera come stuntmen quando serve, lavora come meccanico e arrotonda guidando per rapinatori. Questa assenza di nome, questa spersonalizzazione quasi archetipica, lo eleva a simbolo, un Golem moderno o un Paladino silenzioso, privo di un passato definito, eppure portatore di una rigidità morale – o quanto meno di un codice d'onore – che stride con l'ambiente circostante. La sua è una vita ascetica di completa solitudine, una disciplina quasi monastica che lo rende un osservatore distaccato del caos che lo circonda, finché non viene stravolta soltanto dalla donna di cui si innamorerà, Irene, e da suo figlio. Questa intrusione dell'innocenza e della vulnerabilità nel suo universo solitario è la scintilla che innesca il dramma, trasformando il Driver da un mero ingranaggio di un meccanismo criminale a una forza inarrestabile spinta dalla protezione e dalla vendetta.

Ma tutto finisce per defluire in una spirale senza fine di violenza dove brutalità e disumanità cancellano qualsiasi tipo di redenzione. La violenza in "Drive" non è mai gratuita, nonostante la sua brutalità spesso inaspettata e scioccante. È la conseguenza logica e inevitabile delle premesse noir: un mondo dove i tentativi di salvezza sono puntualmente soffocati da una realtà immutabilmente corrotta. Il Driver, nella sua calma glaciale, si trasforma in una figura quasi mitologica di vendicatore, un giustiziere solitario che agisce al di fuori di ogni legge, con una freddezza che riflette il suo isolamento interiore. La sequenza dell'ascensore, un capolavoro di tensione e improvvisa, sconvolgente violenza, cristallizza questa transizione, svelando il lato predatorio e implacabile del protagonista. È il fallimento della fiaba romantica, l'inevitabile dissoluzione di ogni illusione di normalità di fronte alla bestialità umana.

Un altro elemento saliente del noir è il chiaroscuro, le pellicole erano infatti immerse in una penombra pressochè costante e la luce era rarefatta, bagnando il campo visivo con un bianco e nero lattiginoso e cupo. Anche in Drive, sebbene Refn abbia preferito il colore, l’uso della luce è magistralmente umbratile, giochi di ombre danzano sui visi dei protagonisti e la maggior parte delle sequenze è girata in notturno. Ma qui il colore non è un semplice vezzo estetico; è un linguaggio. I neon di Los Angeles, le luci soffuse dei bar, l'azzurro profondo delle notti californiane e il rosa brillante della giacca dello scorpione del Driver non solo dipingono un'atmosfera, ma sottolineano stati d'animo, presagi e simbolismi, rievocando l'estetica pulp e l'immaginario dei videogiochi anni '80 pur mantenendo la cupezza esistenziale del noir classico. La fotografia di Newton Thomas Sigel è un esercizio di stile, dove la luce e l'ombra non si limitano a modellare gli spazi, ma a definire i confini morali dei personaggi.

Un altro elemento fondamentale del cinema noir sono i soldi attorno ai quali ruota sempre la narrazione: in Drive la chiave di volta della storia (tratta dall’omonimo romanzo di James Sallis) è un bottino di un colpo che il pilota (che non ha nome nè mai lo avrà nel corso del film) accetta di compiere per proteggere la donna di cui è innamorato. Questo denaro non è mai visto come una via d'uscita o una promessa di felicità, bensì come il catalizzatore di un'ulteriore caduta, un magnete per la violenza e la distruzione. È il classico "macguffin" noir, l'oggetto del desiderio che scatena un vortice di eventi incontrollabili, rivelando la natura predatoria e spietata del mondo criminale che si cela sotto la superficie patinata della "Città degli Angeli". L'amore, qui, non è redenzione, ma il più pericoloso dei vizi capitali, perché rende il solitario protagonista vulnerabile, trascinandolo in un conflitto che non è il suo, ma dal quale non può sfuggire.

Un fuoco di fila di spietate ritorsioni e vendette brutali conduce lo spettatore attraverso un mondo sordido, senza luce, un lungo tunnel asfittico senza alcuna prospettiva di evasione. Los Angeles, in "Drive", non è la città da cartolina, ma un labirinto urbano di vicoli bui e motel fatiscenti, una metropoli indifferente che divora i suoi abitanti, un personaggio silenzioso e minaccioso che riflette la desolazione interiore dei protagonisti. È un mondo senza salvezza dove il regista muove sagacemente la sua cinepresa come un silente voyeur che studia il comportamento di piccoli insetti che si dibattono invano in un’immensa ragnatela. Questa metafora della ragnatela è potente: suggerisce l'ineluttabilità del destino, la sensazione di intrappolamento che pervade ogni fotogramma. La colonna sonora, un mix ipnotico di synthwave e brani melodici che oscillano tra nostalgia malinconica e minaccia incombente, agisce come il cuore pulsante di questa ragnatela, scandendo il ritmo lento e inesorabile della caduta. Il minimalismo dei dialoghi esalta questa sensazione, lasciando che siano le immagini, i suoni e i silenzi a raccontare la storia, immergendo lo spettatore in una contemplazione quasi meditativa della violenza e del dolore.

Ne scaturisce un’opera brutale e affascinante, grezza e potente, con un linguaggio che squarcia il buio per definire un nuovo prezioso capitolo del cinema noir. "Drive" non è solo un omaggio a un genere, ma una sua radicale reinvenzione, un'ode all'estetica anni '80 filtrata attraverso una lente di fatalismo contemporaneo. È un film che si insinua sotto la pelle, lasciando un'impressione duratura grazie alla sua estetica riconoscibile, alla sua narrazione parsimoniosa ma densa di significato e alla performance iconica e silenziosa di Ryan Gosling. È la prova che il noir, in tutte le sue sfumature, continua a essere uno specchio inquietante delle nostre paure più profonde e delle nostre aspirazioni più fallaci, riaffermando la sua eterna pertinenza nel panorama cinematografico.

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