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Drive My Car

2021

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Drive My Car è un'opera monumentale di tre ore che rifiuta ogni scorciatoia emotiva per intraprendere una dissezione fenomenologica del dolore, del linguaggio e del silenzio. Lungi dall'essere un dramma convenzionale, il film si configura come un trattato filosofico mascherato da road movie, un'indagine spietata sull'incomunicabilità che trova una catarsi inaspettata nel potere terapeutico del testo teatrale. È un cinema che esige una resa incondizionata, ma che ripaga con una profondità intellettuale ed emotiva quasi insostenibile. I personaggi di Hamaguchi, mutuati dalla prosa laconica di Haruki Murakami, sono essenzialmente delle monadi leibniziane: entità chiuse in se stesse, "senza finestre", che contengono un universo di dolore privato inaccessibile dall'esterno. Yūsuke Kafuku, il protagonista, e sua moglie Oto hanno costruito un'unione basata su un rituale—sesso, seguito da racconti post-coitali—che maschera un'abissale voragine di silenzio riguardo alla tragedia fondante della loro vita: la morte di una figlia. La loro comunicazione è un codice, non un dialogo, un modo per orbitare attorno al dolore senza mai nominarlo.

Quando Oto muore improvvisamente, Yūsuke rimane imprigionato nella sua monade, continuando a dialogare con un fantasma attraverso le cassette che lei gli ha registrato. Lo stesso vale per la sua giovane e taciturna autista, Misaki, e per il giovane attore Takatsuki, entrambi depositari di traumi inespressi. In questa esplorazione dell'alienazione, Hamaguchi si pone come l'erede diretto dei grandi maestri europei dell'incomunicabilità. Si avverte l'eco di Michelangelo Antonioni nella composizione degli spazi, dove la desolazione del paesaggio (le autostrade, la Hiroshima invernale) diventa una proiezione del vuoto interiore dei personaggi. E si sente la vicinanza a Ingmar Bergman, soprattutto nel modo in cui il film si concentra sui volti come mappe di un tormento psicologico che le parole non riescono a contenere.

Se, come affermava Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus "i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo", allora i personaggi di Drive My Car sono intrappolati in un mondo asfittico. La loro incapacità di articolare il dolore li condanna a una stasi esistenziale. Come possono delle monadi senza finestre comunicare? Hamaguchi offre una risposta tanto brillante quanto antica: attraverso il Logos. In questo film, il Logos—il Verbo, la Ragione, la Parola strutturata—è il testo di Anton Čechov, Zio Vanja. Yūsuke, in qualità di regista, non si limita a mettere in scena una pièce, ma orchestra un processo terapeutico. Obbliga i suoi attori, provenienti da lingue e culture diverse (giapponese, coreano, mandarino, lingua dei segni), a recitare un testo che non è il loro, in una lingua che spesso non è la loro. Ripetendo le parole di Čechov, i personaggi trovano un veicolo per esprimere sentimenti che non riuscirebbero a formulare con il proprio linguaggio. Il dolore di Vanja diventa il dolore di Yūsuke. L'attore che interpreta Vanja, Takatsuki, confrontandosi con un testo esterno, è costretto a confrontarsi con il proprio caos interiore. Il Logos di Čechov diventa una struttura esterna che permette di dare forma all'indicibile.

La pièce multilingue dimostra che la vera comunicazione non risiede nel significato letterale delle parole, ma nell'intenzione, nel ritmo, nel respiro, nello sguardo. È un'intuizione profondamente wittgensteiniana: il significato è nell'uso, nel contesto, nel gioco linguistico condiviso, anche quando le lingue sono diverse. La catarsi finale, infatti, non avviene attraverso una confessione diretta e spontanea tra Yūsuke e Misaki nella loro lingua, ma attraverso due atti mediati: la performance teatrale di Yūsuke che finalmente assume il ruolo di Vanja, e la confessione di Misaki nella desolata casa della sua infanzia in Hokkaido, un luogo che è esso stesso un "testo" della sua sofferenza.
Ryusuke Hamaguchi è la figura di spicco di un nuovo cinema giapponese che, pur dialogando con i suoi maestri, ha trovato una voce autonoma. Il suo approccio si distingue nettamente da quello di altri grandi del passato e del presente. Se paragonato a Hirokazu Kore-eda, Hamaguchi condivide un certo umanesimo e un'attenzione per le dinamiche interpersonali, ma è formalmente più rigoroso, più freddo, e meno incline a un sentimentalismo consolatorio. Laddove Kore-eda cerca il calore nelle famiglie disfunzionali, Hamaguchi ne esplora la gelida distanza. Il contrasto con Takeshi Kitano è ancora più evidente. Il minimalismo di Kitano è fatto di silenzi esplosivi e di una violenza improvvisa e stilizzata. Il minimalismo di Hamaguchi è invece verboso, costruito su dialoghi lunghissimi e su una tensione puramente psicologica.

Il cinema di Hamaguchi, insieme a quello di altri autori come Kōji Fukada, rappresenta una tendenza verso opere di lunga durata, di impianto quasi letterario, che privilegiano la complessità della parola e la paziente osservazione delle relazioni umane, allontanandosi dai generi (J-horror, yakuza movie) che avevano caratterizzato l'export cinematografico giapponese dei decenni precedenti.

Drive My Car è un film che mancava, è un lavoro che teorizza se stesso mentre si svolge, usando l'atto della rappresentazione teatrale come metafora della vita e come strumento di guarigione. La vecchia Saab 900 rossa non è solo un'automobile, ma uno spazio liminale: un confessionale mobile, un santuario e un palcoscenico viaggiante dove due entità, Yūsuke e Misaki, attraverso il silenzio condiviso e il Logos altrui, trovano finalmente il modo di aprire una crepa nel muro della propria solitudine e lasciarvi entrare un fragile raggio di luce. Ed è precisamente lì che ci attende il regista.

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