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Dune - Parte Uno e Due

2021

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Analizzare Dune (2021) di Denis Villeneuve senza considerare Dune - Parte Due (2024) è un errore critico, come giudicare un romanzo leggendone solo il primo tempo. E' anzi inevitabile l'aggiunta a questa recensione, o forse è meglio dire l'integrazione, del prossimo Dune Resurrection, che sembra in uscita nel 2026. Come già per la trilogia di Jackson del Signore degli Anelli, anche questa trilogia verrà considerata un granitico corpo unico di bellezza e di integrità che ci piace recensire ed avere in una sola scheda film. L'opera di Villeneuve non è un film con dei sequel; è un unico, monumentale corpo cinematografico di quasi sei ore (che diventeranno verosimilmente nove), un'epica deliberatamente scissa in due atti (anzi in tre). La prima parte è l'inalazione, un'immersione atmosferica nel world-building. La seconda è l'espirazione, un'esplosione di conflitto, politica e tragedia. Insieme, compongono non un semplice adattamento, ma una traduzione sensoriale dell'universo di Herbert, un'impresa che riesce proprio dove il suo più illustre e bizzarro predecessore aveva fallito.

La genialità di Villeneuve sta nelle sue soluzioni iconografiche, che risolvono problemi narrativi complessi con immagini di una potenza quasi biblica. Questo approccio è coerente e potenziato in entrambe le parti in una sorta di monumentalismo brutalista i cui tratti somatici avevamo rinvenuto in certe sequenze del Blade Runner di Ridley Scott.
Qui al posto del pantagruelico palazzo della Tyrell Corporation ci sono le astronavi-cattedrale, enormi ammassi meccanici che si spalmano sull'orizzonte incombendo sulla visuale dello spettatore e travolgendolo. Ma anche gli splendidi palazzi semi-deserti degli Atreides che trovano il loro corrispettivo nell'architettura bellica degli Harkonnen su Giedi Prime. L'arena del compleanno di Feyd-Rautha, filmata in un bianco e nero infrarosso, è un capolavoro di estetica fascista, un Colosseo alieno che comunica la natura psicopatica di quella società senza bisogno di una sola parola di spiegazione. La Tecnologia Organica: Gli ornitotteri e le tute distillanti della Parte Uno diventano strumenti di guerriglia nelle mani dei Fremen nella Parte Due. L'atto di cavalcare per la prima volta un verme delle sabbie non è solo un'incredibile sequenza d'azione, ma un rito di passaggio visivamente sbalorditivo, che fonde l'uomo, la macchina (i ganci) e la natura divina (Shai-Hulud) in un'unica, terrificante armonia.

La poetica di Villeneuve si fonda su una potente scansione visiva che rende Arrakis un personaggio vivo. Se la prima parte ci fa sentire il caldo e la sabbia, la seconda ci fa sentire la vastità strategica del deserto. Le panoramiche non sono più solo contemplative, ma diventano mappe tattiche per le imboscate dei Fremen. Le tempeste di sabbia non sono solo un pericolo climatico, ma un'arma. La regia di Villeneuve trasforma l'ecosistema in un attore geopolitico, realizzando pienamente il nucleo ecologico del romanzo di Herbert. È qui che l'unione delle due parti diventa essenziale. La Parte Uno introduce il tema della manipolazione della fede da parte delle Bene Gesserit. La Parte Due ne mostra il tragico e terrificante compimento. Il film è un'acuta e spietata decostruzione della figura del "prescelto". Il viaggio di Paul non è quello di un eroe, ma la cronaca di una radicalizzazione. Villeneuve, in modo molto più esplicito di Herbert, usa il personaggio di Chani (interpretata da Zendaya con fiera lucidità) come coscienza morale della storia. Lei si oppone al fondamentalismo che divinizza Paul, rappresentando l'amore e la resistenza contro il potere. La scelta finale di Paul di bere l'Acqua della Vita, abbracciare il suo ruolo di Messia (il Lisan al Gaib) e scatenare la Jihad galattica non è una vittoria, ma una sconfitta spirituale. Sceglie il potere al posto dell'amore, il destino al posto della libertà. Il finale della Parte Due, con Chani che si allontana disgustata mentre Paul ascende al trono, è una delle conclusioni più cupe e intellettualmente oneste del cinema blockbuster moderno.

Il confronto con il Dune (1984) di David Lynch è inevitabile e illuminante. Non si tratta di stabilire quale sia "migliore", ma di riconoscere che sono due opere provenienti da universi artistici differenti che hanno affrontato lo stesso testo sacro. Lynch immerge Dune nel suo tipico immaginario onirico e surreale. La sua estetica è barocca, organica, a tratti ripugnante. Gli Harkonnen sono caricature pustolose e sghignazzanti. I navigatori della Gilda sono mostruosità falliche che fluttuano in acquari. È un'interpretazione freudiana e viscerale. Villeneuve, al contrario, opta per un'estetica brutalista, monumentale e quasi sacra. I suoi Harkonnen non sono grotteschi, ma incarnano una malvagità fredda, industriale e totalitaria. L'approccio di Lynch è introspettivo e psichedelico; quello di Villeneuve è epico e architettonico. Lynch tenta l'impossibile: comprimere l'intero romanzo in 137 minuti. Il risultato è una narrazione affannosa, quasi incomprensibile, che si affida a costanti e goffi monologhi interiori (voice-over) per spiegare la trama. È un film che racconta invece di mostrare. Villeneuve fa la scelta opposta. Usa quasi sei ore per decompri-mere la storia, lasciando che siano l'atmosfera, le immagini e le performance a parlare. Si fida dell'intelligenza dello spettatore, immergendolo nel mondo senza bisogno di continue didascalie. È la differenza tra leggere un riassunto e leggere il romanzo.

Questa è la divergenza più profonda. Il Paul di Lynch, pur con le sue stranezze, è un eroe più convenzionale. Il suo trionfo è quasi un lieto fine, culminando nella scena anti-Herbertiana in cui fa piovere su Arrakis, un miracolo che contraddice tutta la logica ecologica del libro. Il Paul di Villeneuve è una figura tragica. La sua ascesa è vista come un cataclisma. Il film sposa pienamente la critica di Herbert al potere carismatico. L'assenza della pioggia e la presenza della guerra santa nel finale di Villeneuve sono la prova della sua fedeltà non solo alla lettera, ma soprattutto allo spirito intellettuale e ammonitore del romanzo.

In definitiva, Denis Villeneuve è riuscito dove un genio come Lynch aveva fallito, non perché sia un regista "migliore", ma perché ha capito che Dune non andava interpretato, ma tradotto. Ha compreso che la sua complessità non era un ostacolo da superare con la compressione o la stravaganza, ma un oceano in cui immergersi con pazienza e rispetto. La sua opera in due parti non è solo il miglior adattamento possibile, ma un nuovo standard per l'epica fantascientifica: intelligente, sensoriale e terribilmente umana.

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