Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Dunkirk

2017

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Media: 4.80 / 5

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Christopher Nolan disassembla il film di guerra per riassemblarlo come un meccanismo a orologeria inesorabile, un congegno di pura tensione che trascende la narrazione per farsi esperienza fisica. "Dunkirk" non racconta una storia; la infligge. Non ci sono eroi nel senso convenzionale del termine, non ci sono dialoghi espositivi che ci spieghino chi è chi o quali siano le poste in gioco geopolitiche. Nolan, con un’audacia che rasenta l'arroganza intellettuale, presuppone che lo spettatore conosca il contesto o, in alternativa, che il contesto sia irrilevante di fronte all'immanenza della sopravvivenza. Il suo interesse non è la Storia con la S maiuscola, ma la cronaca viscerale di un’attesa, di una fuga, di un'ora disperata moltiplicata per 400.000.

La struttura del film è la sua tesi. Tre linee temporali intrecciate – una settimana sulla terraferma (The Mole), un giorno in mare (The Sea), un’ora in aria (The Air) – non sono un mero vezzo stilistico, un’altra iterazione della sua ossessione cronologica. Sono la traduzione cinematografica della relatività dell'esperienza. Il tempo sulla spiaggia, per il soldato Tommy, si dilata in un'agonia quasi immobile, un presente eterno scandito dal terrore sordo delle bombe in lontananza e dalla speranza frustrata di un imbarco. Il tempo in mare, per il civile Mr. Dawson sulla sua piccola imbarcazione, è un viaggio con una meta precisa, un susseguirsi di decisioni e azioni in un arco diurno. Il tempo in aria, per il pilota di Spitfire Farrier, è una risorsa finita, un conto alla rovescia dettato dal livello del carburante, ogni secondo un calcolo tra vita e morte. Nolan orchestra queste tre durate in un contrappunto mozzafiato, un montaggio che non segue la logica causale ma quella emotiva e ritmica, creando una sinfonia di ansia crescente. È come se avesse applicato i principi della fuga bachiana a un evento bellico, dove ogni linea melodica (temporale) si sviluppa in modo indipendente per poi convergere in un culmine di sconcertante intensità.

Questa manipolazione temporale è amplificata fino a diventare un'aggressione sensoriale dalla colonna sonora di Hans Zimmer. Più che una partitura, è un’arma psicologica. Zimmer utilizza il "tono Shepard", un'illusione acustica che crea la percezione di una scala che sale o scende all'infinito, per generare una tensione che non si risolve mai. A questo si sovrappone il ticchettio ossessivo di un orologio – si dice, quello di Nolan stesso – che diventa il vero metronomo della narrazione, il vero antagonista. Il tempo stesso è il nemico. I proiettili, le bombe, l'annegamento sono solo le sue manifestazioni fisiche. In questo, "Dunkirk" si allontana da ogni tradizione bellica, da Fuller a Kubrick, per avvicinarsi a qualcosa di più astratto e primordiale: il cinema survivalista di un "Gravity" di Cuarón o, per assurdo, la lotta contro una forza cosmica e indifferente che si potrebbe trovare in un racconto di Lovecraft. I soldati sulla spiaggia non combattono i tedeschi; combattono la geometria, la fisica, la probabilità e, soprattutto, il passare del tempo.

Sul piano visivo, l'opera è un saggio sulla potenza dell'immagine pura, un ritorno alle origini del cinema come spettacolo cinetico. Girando in IMAX 70mm, Nolan e il suo direttore della fotografia Hoyte van Hoytema non cercano semplicemente la "grandezza" dello spettacolo; cercano l'immersione totale, quasi soffocante. I cieli vasti e grigi, il mare minaccioso, la spiaggia sterminata punteggiata di figure umane indistinguibili... c'è un'eco della pittura romantica, del Sublime di J.M.W. Turner, dove l'uomo è una figura minuscola e impotente di fronte alla maestosità terribile della natura. Qui, la natura è complice della guerra. La marea che si ritira, esponendo le navi arenate ai bombardieri, è un avversario tanto quanto il nemico invisibile. Il dialogo è ridotto all'osso, a ordini urlati, a frasi smozzicate. I volti dei giovani attori sono maschere di paura, stanchezza e determinazione muta. Come se la macchina da presa di Robert Bresson, con la sua attenzione ascetica ai gesti e agli oggetti, avesse incontrato la fisicità disperata di un Buster Keaton che lotta contro un mondo ostile e meccanico.

Questa scelta di spersonalizzare i personaggi, di renderli quasi degli avatar, è stata criticata come un segno di freddezza, di un intellettualismo che sacrifica l'emozione. È un'analisi miope. Nolan non vuole che ci identifichiamo con la psicologia di Tommy o di Farrier; vuole che ci identifichiamo con la loro situazione. Li spoglia di ogni backstory non per renderli vuoti, ma per renderli universali. Sono l'archetipo del giovane uomo in trappola, del civile che risponde a una chiamata morale, del professionista che esegue il suo compito fino all'ultimo. L'anonimato non è un difetto, è il punto. Rimuovendo l'impalcatura del dramma individuale, Nolan eleva l'evento a un'epopea collettiva e quasi astratta. Non è la storia di un eroe, è la fenomenologia della sopravvivenza di massa. È una scelta che trova un parallelo in certa letteratura modernista, come "La terra desolata" di T.S. Eliot, dove una coralità di voci frammentate restituisce il collasso di un'intera civiltà senza bisogno di un protagonista definito.

Il film, nel suo contesto socio-culturale, opera una radicale demitizzazione dello "spirito di Dunkerque". Il mito britannico è quello di una ritirata gloriosa, di una sconfitta trasformata in vittoria morale, il preludio al "we shall fight on the beaches" di Churchill. Nolan, pur concludendo con la lettura di quel famoso discorso, passa l'intero film a mostrare cosa significhi, concretamente, essere su quelle spiagge. Mostra il caos, il panico, gli atti di egoismo accanto a quelli di eroismo, la fragilità dei corpi, il rumore assordante, la sporcizia. La "vittoria" non è un trionfo militare, ma il semplice fatto di tornare a casa, accolti non da parate ma da un anziano che porge delle coperte e dice "Ben fatto". È una vittoria esistenziale. Nolan purifica il mito nazionale da ogni retorica trionfalistica per restituirne il nucleo umano: la solidarietà spontanea dei civili sulle "little ships", l'ostinazione di chi non si arrende, la profonda, semplice, disperata volontà di vivere.

Alla fine, "Dunkirk" si rivela non tanto un film di guerra, quanto un thriller procedurale sulla logistica della salvezza. È un'installazione audiovisiva, una macchina per l'empatia esperienziale che usa ogni strumento tecnico del cinema – il formato dell'immagine, la progettazione del suono, la struttura del montaggio – per simulare uno stato d'animo e una condizione fisica. È un'opera di formalismo estremo e, proprio per questo, di un'emotività lancinante e primordiale. Abbandonando quasi del tutto la parola, Nolan realizza un pezzo di cinema puro, un'esperienza che non si capisce, ma si subisce. E in questo subire, in questo essere intrappolati per 106 minuti in un meccanismo perfetto di ansia e speranza, risiede la sua grandezza brutale e indimenticabile. Un'opera d'arte totale che ridefinisce i confini del cinema storico, trasformandolo in un presente teso e ineludibile.

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