È nata una stella
1954
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Regista
Hollywood è un ouroboros, un serpente mitologico che si nutre della propria coda in un ciclo perenne di creazione e autodistruzione. Pochi film hanno saputo catturare questa crudele, affascinante tautologia con la stessa potenza del calco primigenio di William A. Wellman, È nata una stella. Non la prima iterazione della storia – quel primato spetta a What Price Hollywood? di George Cukor, che avrebbe poi diretto il remake del '54 – ma la versione del 1937 è quella che ha distillato il mito, che ne ha scolpito la grammatica archetipica nel marmo del canone cinematografico, consegnandolo a un'eternità di repliche e variazioni.
Guardare oggi il film di Wellman significa compiere un'operazione quasi archeologica. Si scava sotto gli strati geologici delle versioni successive – l'opulenza tragica di Judy Garland, l'ego rock di Barbra Streisand, l'autenticità scorticata di Lady Gaga – per arrivare al fossile perfetto, alla struttura ossea di un racconto che è, in essenza, l'eziologia stessa della Fama. La storia di Esther Blodgett (Janet Gaynor), ragazza di provincia dal viso pulito e dagli occhi colmi di sogni, che anela a diventare un'attrice, è il punto di partenza di innumerevoli narrazioni americane. Ma la sua traiettoria non è quella di un'ascesa lineare. La sua nascita stellare è legata indissolubilmente a una caduta, a una catabasi: quella del suo mentore e amante, la star in declino Norman Maine (un superbo Fredric March).
Il loro primo incontro è già una dichiarazione d'intenti. Lui, ubriaco e affascinante, irrompe alla prima di un film; lei, cameriera a una festa, lo osserva con un misto di ammirazione e timore. Maine non è semplicemente un pigmalione che scorge il talento grezzo in una moderna Galatea; è un demiurgo decadente, un dio alcolizzato del pantheon hollywoodiano che, nel suo ultimo, disperato atto creativo, decide di forgiare una nuova divinità. L'atto di rinominarla – da Esther Blodgett, un nome terrestre e prosaico, a "Vicki Lester", un costrutto fonetico nato per le luci al neon – è più di un vezzo da star system. È un battesimo secolare, un'abluzione nelle acque ciniche e scintillanti della macchina-cinema che lava via l'identità per sostituirla con un'icona.
Fredric March offre una delle performance più coraggiose e complesse dell'epoca. Il suo Norman Maine è un precursore di innumerevoli antieroi del cinema a venire, da Joe Gillis in Viale del tramonto a Jack Dawson in Titanic: figure carismatiche condannate da un romanticismo letale. Maine incarna una sorta di Jay Gatsby della West Coast, un uomo che ha costruito il proprio mito sul nulla e che ora assiste impotente al suo sgretolarsi. La sua tragedia non è solo l'alcolismo, sintomo di un malessere più profondo, ma l'incapacità di esistere in un mondo che ha contribuito a creare ma che non gli appartiene più. È il creatore che diventa obsoleto di fronte alla perfezione della sua creatura. La sua discesa è inversamente proporzionale all'ascesa di Vicki, un'equazione crudele che è il vero motore narrativo del film e, per estensione, della logica della celebrità.
La sceneggiatura, alla quale mise mano la penna affilata come un bisturi di Dorothy Parker, è un capolavoro di equilibrio tra melodramma e critica sociale. Dietro la patina romantica, pulsa una satira feroce sulla fabbrica dei sogni. Le figure di contorno, come l'implacabile addetto stampa Matt Libby, sono ingranaggi essenziali di una macchina che produce e divora le sue stelle con la stessa, impassibile efficienza. Il film espone il meccanismo con una lucidità quasi documentaristica: i provini umilianti, la costruzione a tavolino dell'immagine pubblica, la tirannia dei contratti, il gossip come arma di promozione e distruzione. È Hollywood che si mette a nudo, che confessa i propri peccati capitali per poi assolverli nell'apoteosi del grande spettacolo.
E che spettacolo. Girato in uno sfolgorante Technicolor a tre matrici, ancora una tecnologia relativamente nuova e costosa, il film utilizza il colore non come mero abbellimento, ma come strumento espressivo. La tavolozza cromatica satura e vibrante trasforma Los Angeles in un iperuranio, un regno artificiale dove i tramonti sono più arancioni e i vestiti più sgargianti. Questo Eden cromatico, tuttavia, nasconde un'anima oscura. È la bellezza di una pianta carnivora. La fotografia di W. Howard Greene crea un contrasto lancinante tra la superficie patinata del mondo dello spettacolo e il tormento interiore dei suoi protagonisti. La scena in cui Norman, in preda a una crisi, si guarda allo specchio e vede il suo volto disfarsi è un momento di puro espressionismo tedesco trapiantato sotto il sole della California.
La regia di Wellman, un veterano che aveva conosciuto la brutalità della Prima Guerra Mondiale e l'aveva trasposta nel capolavoro Ali, è di una precisione chirurgica. Non si compiace mai del sentimentalismo, ma lo osserva con la freddezza di un entomologo. La sua gestione dei tempi e degli spazi è magistrale. La sequenza della cerimonia degli Oscar è un saggio di montaggio e tensione: il trionfo di Vicki, il suo discorso commosso, e poi l'irruzione di Norman, ubriaco, che inciampa sul palco e involontariamente schiaffeggia la moglie, trasformando il suo momento di gloria in un'umiliazione pubblica. È una scena che racchiude l'intera dinamica del film: l'amore che si fa sabotaggio, la vita privata che viene divorata da quella pubblica.
Il film, prodotto in piena era del Codice Hays, danza con abilità attorno ai tabù. L'alcolismo è rappresentato come una malattia morale, una debolezza dell'anima, ma la sua devastazione è mostrata senza filtri. E poi c'è il suicidio. La decisione di Norman di togliersi la vita camminando verso l'oceano è resa con una dignità tragica che elude la censura, trasformando un atto di disperazione in un estremo gesto d'amore: un sacrificio per non offuscare la stella della moglie. È una soluzione narrativa potente che cementa il mito di Norman Maine come martire dell'amore e della Fama, un Icaro che, dopo essere precipitato, sceglie di annegare per permettere a un altro di continuare a volare.
Ma è nel finale che il film trascende il melodramma per diventare meta-cinema puro. Alla prima del suo nuovo film, una Vicki Lester vedova e affranta viene convinta a non ritirarsi. Si presenta al pubblico e, davanti ai microfoni, pronuncia la frase immortale: "Hello everybody. This is Mrs. Norman Maine." Non è un rifiuto del suo nome d'arte, ma una fusione totale tra la persona e il personaggio, tra la tragedia privata e la narrazione pubblica. Esther/Vicki accetta la sua condizione: essere per sempre definita dal fantasma del suo creatore. Con questa frase, completa il ciclo. La sua stella è nata davvero, ma porta impressa, come una cicatrice celeste, l'ombra di quella che si è spenta per lei.
È nata una stella non è semplicemente un bel film. È un trattato antropologico sulla natura della celebrità, un testo sacro per la religione del cinema. Racconta una storia che, come le tragedie greche o i miti shakespeariani, possiede una verità talmente universale da poter essere raccontata all'infinito, in ogni epoca, con volti e musiche diverse, senza mai perdere la sua risonanza. Ogni remake è un tentativo di rispondere alla stessa, angosciante domanda: qual è il prezzo della gloria? La versione di Wellman del 1937 non solo pone la domanda per prima, ma la incide a fuoco nell'immaginario collettivo, offrendo una risposta tanto semplice quanto terrificante: tutto.
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