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Easy Rider

1969

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Libertà.

Di correre via, di viaggiare, di staccarsi dalla società, di calcare nuove strade, di essere diversi, non omologati. Una libertà che, in "Easy Rider", si palesa non solo come utopia beat, ma anche come un'inevitabile condanna in un'America che si avviava a un'epoca di profonde lacerazioni e disillusioni. Il film di Dennis Hopper, presentato al pubblico nel fatidico 1969, non è soltanto un'istantanea di un decennio tumultuoso, bensì un preveggente epitaffio per l'idealismo della controcultura, un requiem per la speranza di una "Nuova Frontiera" che non avrebbe mai visto la luce.

È questa l’atmosfera che si respira in questo road movie, divenuto IL road movie per antonomasia. E la sua ascesa a tale archetipo non è frutto del caso, ma della sua capacità di cristallizzare un sentimento generazionale, quello di una gioventù che avvertiva l'urgenza di sottrarsi alle gabbie borghesi e alle ipocrisie belliche, inseguendo un orizzonte di pura autenticità. Se l'antecedente letterario, l'omonimo "Sulla Strada" di Kerouac, aveva celebrato la frenesia della ricerca e la gioia della scoperta, "Easy Rider" ne è la sua controparte filmica, più cruda e disillusa, che prefigura la fine di quell'innocenza. La sua influenza è palpabile in ogni successivo viaggio on the road cinematografico, dal nichilismo di "Vanishing Point" all'angoscia esistenziale di "Five Easy Pieces", dimostrando come il modello di Hopper abbia ridefinito il genere, trasformandolo da epopea spensierata in tragedia moderna.

Peter Fonda e Dennis Hopper, nei panni dei leggendari Wyatt (Captain America) e Billy, sono due motociclisti che non si voltano indietro. In sella alle loro moto, icone lucenti di ribellione e autoaffermazione, percorreranno le strade di un’America bigotta e chiusa in se stessa, incapace di riconoscere in quei due ragazzi due spiriti liberi senza nessun altro fine che quello di viaggiare ed essere liberi da ogni vincolo. La loro "libertà" è una provocazione ambulante, un'offesa vivente all'ordine costituito che vede in quei lunghi capelli, in quelle motociclette luccicanti e in quell'indolenza apparente, una minaccia inaccettabile. La narrazione episodica del film, con i suoi incontri ora fugaci e amichevoli (la comune hippie), ora apertamente ostili (i redneck del profondo sud), dipinge un affresco impietoso delle fratture sociali e culturali che stavano dilaniando gli Stati Uniti in quel periodo di guerra in Vietnam e di fermenti sociali.

Il loro viaggio sarà fatto di luoghi, di gente, di canzoni, di trip e di pensieri lanciati nel vuoto umbratile delle praterie americane. La colonna sonora, un vero e proprio personaggio a sé stante, è un esempio virtuoso di come la musica preesistente possa elevare la narrazione. Le note graffianti di Steppenwolf con "Born to Be Wild" diventano l'inno di una generazione, mentre "The Pusher" e i brani dei Byrds e Jimi Hendrix non sono semplici accompagnamenti, ma pulsazioni vitali che scandiscono il ritmo del film, amplificandone il lirismo e la sua intrinseca malinconia. I "trip" – le sequenze allucinate della festa a New Orleans – non sono mere esibizioni visive di uno stile di vita, ma tentativi disperati di trascendere una realtà percepita come soffocante, un'immersione nell'incubo psichedelico che rivela la fragilità intrinseca della ricerca spirituale attraverso le droghe. E i "pensieri" che si perdono nel vento, spesso non detti ma impliciti nei silenzi o nei dialoghi rarefatti, portano con sé il peso di un'inquietudine esistenziale, di una domanda di senso che trova risposte solo nell'effimera sensazione del vento in faccia.

Le loro moto divoreranno polvere e storie di uomini, ma, in un senso più profondo, saranno loro stessi a essere divorati. Il loro "essere facili da cavalcare" (easy rider) si trasforma in "facili da bersagliare", vittime sacrificali sull'altare di un'America che teme ciò che non comprende.

In piena rivoluzione culturale, Dennis Hopper sposa la prospettiva della beat generation lanciando un grido di dolore, una potente metafora contro una società preoccupata soltanto di imbrigliare i suoi cittadini con regole ferree e di massificarli con l’omologazione collettiva. Il film è un commentario tagliente sulla dicotomia tra la ricerca individuale della libertà e la forza repressiva del conformismo sociale. Il lamento di Hopper non è solo un atto d'accusa contro la violenza della "middle America", ma anche un presagio amaro della fine del sogno utopistico degli anni Sessanta, un periodo in cui l'idealismo hippie si scontrò violentemente con la realtà di una nazione in preda alle convulsioni. La brutalità dell'epilogo, tanto improvvisa quanto simbolica, suggella la morte di una visione e lascia lo spettatore con l'amara consapevolezza che, per quella generazione, non c'era più spazio per correre.

Un film che ha fatto storia e che, tra le altre cose, ha segnato il debutto di un giovanissimo Jack Nicholson, la cui interpretazione di George Hanson, l'avvocato alcolizzato e colto, non solo gli valse una nomination all'Oscar, ma divenne la bussola morale del film. Le sue riflessioni notturne sul senso della libertà e sulla paura dell'ignoto che attanaglia la società ("Sono spaventati da voi... vi vedono come marziani") elevano il dibattito da un semplice scontro tra culture a un'analisi più profonda dell'intolleranza umana. La sua presenza in scena, carica di una disperata lucidità, rappresenta il punto di incontro – e poi di rottura definitiva – tra il mondo dei ribelli e quello borghese, rendendo la sua tragica fine il simbolo della vulnerabilità di chiunque osi alzare la testa. "Easy Rider" non fu solo un successo di botteghino, ma un terremoto che scosse le fondamenta di Hollywood, aprendo le porte alla "New Hollywood" e dimostrando che film a basso budget, audaci e indipendenti, potevano risuonare profondamente con il pubblico, cambiando per sempre le regole del gioco cinematografico. Il suo lascito è intatto: un'opera che continua a interrogare il concetto di libertà e il prezzo che si è disposti a pagare per essa, in un'America che forse non ha mai smesso di temere i suoi "marziani".

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