Ecco l'impero dei sensi
1976
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Regista
Un buco nero gravitazionale di desiderio, che risucchia al suo interno luce, spazio, tempo e, infine, la Storia stessa. Questo è Ecco l'impero dei sensi (Ai no Corrida) di Nagisa Ōshima. Guardare questo film nel ventunesimo secolo, in un'epoca di pornografia on-demand e di desensibilizzazione digitale, richiede uno sforzo di contestualizzazione quasi archeologico. Bisogna spogliarsi delle proprie sovrastrutture per affrontare un oggetto cinematografico che non è stato concepito per intrattenere, né per eccitare nel senso volgare del termine, ma per compiere un'autopsia rituale sull'ossessione, portando lo spettatore sull'orlo di un abisso dove piacere e morte si fondono in un'unica, terrificante liturgia.
Siamo nel 1936, a Tokyo. Fuori dalla locanda dove l'ex geisha Sada Abe e il suo datore di lavoro e amante Kichizo Ishida si rinchiudono, il Giappone marcia. Le uniformi, i passi cadenzati, le bandiere del Sol Levante: sono i prodromi della catastrofe, il suono di una nazione che sta per immolare la propria individualità sull'altare del collettivismo militarista e dell'espansione imperiale. Ōshima ce lo mostra in scorci fugaci, come un rumore di fondo che diventa sempre più insistente e, al tempo stesso, irrilevante. All'interno di quella stanza, sigillata come una camera iperbarica dell'anima, Sada e Kichi compiono un atto di ribellione tanto radicale quanto apolitico: negano il mondo esterno. Rifiutano la Storia, la nazione, la famiglia, l'economia, persino il ciclo del giorno e della notte, per consacrarsi a un unico, totalizzante imperativo: il desiderio dell'altro. La loro è una secessione dal consorzio umano, una diserzione dal corpo sociale per fondare una nazione di due persone il cui unico territorio è la carne.
Più che al Marchese de Sade, a cui un'analisi superficiale potrebbe frettolosamente accostarlo, il nume tutelare dell'opera è Georges Bataille. L'impero dei sensi è la più pura e intransigente trasposizione cinematografica del concetto batailleano di érotisme: quella ricerca della continuità dell'essere attraverso la trasgressione, un'esperienza limite che lacera la discontinuità della nostra esistenza individuale per attingere a uno stato di fusione primordiale, indistinguibile dalla morte. Non è un caso che il sesso nel film di Ōshima perda progressivamente ogni connotato di gioia o vitalità per diventare un rito estenuante, una forma di dispendio (la dépense di Bataille) assoluto e improduttivo, finalizzato unicamente a raggiungere il punto di rottura. La loro spirale di piacere, strangolamenti erotici e isolamento crescente non è una celebrazione della vita, ma una meticolosa preparazione alla sua dissoluzione.
Ōshima non si limita a raccontare una trasgressione; la compie. La decisione, scandalosa e coraggiosa, di utilizzare sesso non simulato non è un espediente pruriginoso, ma una scelta ontologica. Crolla il muro della rappresentazione: l'atto filmato e l'atto reale coincidono, creando un cortocircuito che costringe lo spettatore a confrontarsi non con una finzione, ma con un evento. L'attore non interpreta più il desiderio, è il desiderio. Questa radicalità costò al film la censura in patria (e in gran parte del mondo) e costrinse Ōshima a un'astuzia produttiva: il film fu registrato come co-produzione francese, i negativi spediti clandestinamente a Parigi per essere sviluppati e montati, aggirando così le draconiane leggi giapponesi sulla pornografia. Un aneddoto che diventa metafora: per creare questo spazio senza confini dell'eros, il regista ha dovuto fisicamente attraversare i confini nazionali, compiendo egli stesso un atto di espatrio e trasgressione.
La regia è di una precisione glaciale, quasi entomologica. La macchina da presa osserva i corpi di Eiko Matsuda e Tatsuya Fuji non con lussuria, ma con la curiosità di uno scienziato che studia due particelle in una camera a nebbia, destinate a una collisione annichilente. La composizione dell'inquadratura, densa di colori caldi (il rosso del sangue, dei kimono, delle coperte) e racchiusa in spazi sempre più angusti – la locanda, la stanza, il letto – evoca la tradizione pittorica giapponese degli ukiyo-e, e in particolare delle stampe erotiche shunga. Come in quelle opere, i corpi non sono idealizzati ma mostrati nella loro cruda, a volte goffa, materialità. Non c'è la perfezione anatomica del porno occidentale, ma la verità di due corpi che mangiano, dormono, sudano e si amano fino allo sfinimento. Lo spazio scenico si contrae progressivamente, diventando un'estensione fisica del loro universo mentale, un bozzolo che li protegge e li soffoca al tempo stesso.
In questa discesa agli inferi della passione, il film stabilisce un parallelo perturbante con un'altra forma di ossessione che dilagava nel Giappone del 1936: il culto dell'imperatore e della morte per la patria. Entrambe sono forme di annullamento del sé in un'entità più grande: per i soldati, la Nazione; per Sada e Kichi, la coppia. Entrambe sono pulsioni di morte mascherate da ideali assoluti. In questo senso, l'ossessione privata di Sada diventa il controcanto anarchico e nichilista all'ossessione pubblica e nazionalista. Se il fascismo giapponese chiedeva ai suoi cittadini di morire per l'Impero, Sada e Kichi costruiscono il proprio impero privato per morire. È un cortocircuito devastante, un atto di terrorismo esistenziale contro l'ideologia dominante.
L'evirazione finale, culmine della vicenda reale di Abe Sada che sconvolse il Giappone, nel film di Ōshima trascende il mero atto di cronaca nera. Non è un colpo di scena horror, ma un atto liturgico, la firma sanguinaria su un patto d'amore assoluto. È il tentativo disperato e folle di Sada di possedere Kichi per sempre, di sottrarlo al tempo, alla decadenza e al mondo esterno, trasformando una parte del suo corpo in una reliquia, un feticcio eterno. È la logica conclusione di un amore che non poteva più tollerare alcuna separazione, alcuna individualità residua. Come in certe opere di Yukio Mishima, la bellezza suprema può essere raggiunta solo nell'istante della sua stessa distruzione. L'atto di Sada è la creazione di un'opera d'arte terribile e definitiva, scolpita nella carne del suo amante.
Si potrebbe essere tentati di tracciare un parallelo con il surrealismo di un Buñuel de L'Âge d'Or, dove l'amour fou si manifesta come forza eversiva contro le istituzioni borghesi e religiose. Ma la rivolta di Ōshima è più intima, più silenziosa e, forse, più disperata. Non c'è un "fuori" da scandalizzare o un sistema da abbattere; il mondo esterno è già svanito. L'unica realtà è la stanza, l'unico linguaggio è il corpo, l'unica fine possibile è il compimento del desiderio nella morte. Non è un film da "amare" nel senso convenzionale del termine, ma un'opera da cui essere sopraffatti, forse persino respinti, ma la cui coerenza estetica e filosofica è inattaccabile. Ecco l'impero dei sensi rimane un'esperienza cinematografica estrema, un monolite nero piantato nella storia del cinema che ci interroga sulla natura del desiderio, sui limiti della libertà individuale e sulla vertigine del nulla. Un monumento al confine ultimo dove Eros e Thanatos smettono di essere opposti e diventano la stessa, terrificante divinità.
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