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Ed Wood

1994

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Regista

Edward Davis Wood Jr. è stato definito come il peggior regista di tutti i tempi.

I suoi film erano frutto di un’irriducibile caparbietà, di una smodata voglia di fare cinema con enorme scarsità di fondi, con sceneggiature a dir poco sgangherate, con attori e set a dir poco in sfacelo. La sua opera si colloca in un preciso momento storico e culturale: l'America degli anni '50, un'epoca di ottimismo post-bellico e di paranoia da Guerra Fredda, dove l'ascesa della televisione spingeva Hollywood a produrre B-movies sensazionalistici per riconquistare il pubblico. In questo humus di dischi volanti di cartone e mostri di gomma, Wood emerge non come un cinico artigiano, ma come un autentico artista outsider, un naif della settima arte paragonabile a un Henry Darger della pittura, spinto unicamente da una visione interiore, del tutto indifferente alla lucidità tecnica o al giudizio esterno. Eppure Ed Wood, con la sua sequela di b-movies, è stato oggetto di un amore graduale ma costante durante gli anni seguiti alla sua scomparsa, fino a diventare per molti cineasti un punto di riferimento: un simbolo di come un uomo che ami fare cinema possa esprimere la sua arte attraverso la scarsezza dei mezzi.

E questo film che Tim Burton gli ha voluto dedicare è frutto di questo amore: uno spericolato viaggio attraverso l’estetica di un regista di b-movies e uno sguardo profondo alla sua vita. La scelta del bianco e nero, lungi dall'essere un vezzo stilistico, è un atto filologico, un'immersione totale nel linguaggio visivo non solo dei film di Wood, ma dell'intero immaginario horror e sci-fi di quell'epoca. Burton non si limita a omaggiare, ma adotta lo stesso spirito, radunando la sua personale "factory" di freaks beneamati—da Johnny Depp a Bill Murray—così come Wood radunava la sua sgangherata troupe di disadattati, wrestler e sedicenti veggenti. È una biografia fatta di pulsioni, di nevrosi, d’irriducibile ironia, di stramberie di ogni genere, di coerenza stilistica, di lucida follia, il tutto avvolto dalla partitura sognante e malinconica di Howard Shore, che cattura perfettamente l'ottimismo quasi patologico del suo protagonista.

Ed Wood è un bislacco giovane cineasta che negli anni ’50 intende portare avanti la sua personalissima concezione di cinema nel variegato panorama hollywoodiano. Il suo metodo creativo, se analizzato, ha più a che fare con il Surrealismo e l'automatismo psichico che con la narrazione classica. Le sue sceneggiature non seguono una logica di causa-effetto, ma un'associazione di idee puramente istintiva, dove l'irruzione di un disco volante o di un'improbabile transizione di genere (come nel suo capolavoro Glen or Glenda) risponde a un'urgenza interiore, non a una necessità della trama. In questo senso l’incontro con Bela Lugosi è una sinergia feconda di allampanati progetti e fantasie vertiginose che si traducono in storyboard dai toni surreali. La loro relazione è un patto faustiano alla rovescia: non è il mortale che vende l'anima al diavolo, ma il giovane, ingenuo regista che offre la salvezza a un'icona demoniaca ormai caduta in disgrazia. Lugosi, fantasma di un'epoca d'oro di Hollywood, tormentato dal suo stesso spettro di Dracula e consumato dalla morfina, trova in Wood non un impresario, ma l'unico essere umano capace di guardarlo e vedere ancora una stella, e non un relitto. Ed Wood, in cambio, ottiene il blasone di un nome leggendario per i suoi sogni di cartapesta. Ed Wood dimostrerà a se stesso che girare un film è innanzitutto un’esperienza interiore in cui il regista non fa altro che trasporre su pellicola un turbinoso flusso di coscienza.

Un’opera deliziosa in cui giganteggia Martin Landau nel ruolo di Lugosi e in cui Depp appare assolutamente credibile nei panni del grottesco protagonista. La performance di Landau, premiata con un meritatissimo Oscar, è di una profondità straziante: non si limita a imitare l'accento ungherese, ma cattura l'anima di un uomo prigioniero della sua stessa maschera, un re in esilio che trova un ultimo, patetico regno nel cinema sgangherato di Wood. Assolutamente mitologica la scena in cui Lugosi arriva ubriaco fradicio sul set e ingaggia una lotta furibonda con una piovra inerte a mezz’acqua mentre Ed Wood osserva estasiato. Quella scena è l'apoteosi del cinema woodiano e la sintesi del film di Burton: l'abisso tra l'intenzione artistica (la lotta epica contro il mostro marino) e la realtà tecnica (un pupazzo di gomma in una pozzanghera e un attore che delira). Wood, con il suo sorriso instancabile, è l'unico capace di vedere il capolavoro potenziale, ignorando la miseria dell'esecuzione. Questo film è, in definitiva, un inno al fallimento glorioso, un'ode commovente all'idea che, forse, nel grande schema delle cose, la purezza della passione è un valore infinitamente più nobile del talento stesso.

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