Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Emilia Pérez

2024

Vota questo film

Media: 4.75 / 5

(4 voti)

Un musical narco-melodramma sulla transizione di genere. A rileggere la frase, sembra il pitch uscito da una sessione di brainstorming sotto peyote, il delirio febbrile di un produttore che ha appena finito un rewatch compulsivo di Narcos seguito da una maratona di Douglas Sirk. Eppure, questa creatura cinematografica chimerica, questo glorioso mostro che risponde al nome di Emilia Pérez, non solo esiste, ma è anche l'opera più audace, sfacciata e, in ultima analisi, coerente della carriera di Jacques Audiard. Un regista che ha passato una vita a scandagliare le profondità della mascolinità tossica, da Un profeta a I fratelli Sisters, e che ora decide non solo di osservarla, ma di farla letteralmente a pezzi, di sottoporla a un'operazione chirurgica radicale per veder cosa ne resta dall'altra parte.

La premessa, raccontata con la piattezza di un trafiletto di cronaca, suonerebbe assurda. Rita (una superba Zoe Saldaña), avvocatessa brillante ma sfruttata in uno studio legale corrotto di Città del Messico, viene rapita e portata al cospetto del più temuto signore della droga del paese, Manitas del Monte. La sua richiesta non è una consulenza legale per riciclare denaro o eliminare un rivale, ma qualcosa di infinitamente più complesso e ontologico: aiutarlo a sparire per diventare, finalmente, la donna che ha sempre saputo di essere. L'operazione è un successo tripartito: Manitas muore per il mondo, Emilia Pérez nasce in Svizzera e Rita riceve una parcella che la proietta nell'iperuranio della ricchezza. Anni dopo, però, il passato torna a bussare. Emilia, ora filantropa impeccabile, riassume Rita per una missione ancora più impossibile: riavvicinarsi ai suoi figli, che la credono orfana di padre, senza svelare la sua vera identità.

Se questa trama fosse stata affidata a un altro regista, avremmo probabilmente assistito a un dramma cupo e introspettivo, o a un thriller ad alta tensione. Audiard, invece, fa la scelta più folle e geniale: la trasforma in un'opera pop. I personaggi, nei momenti di massima tensione emotiva o di svolta narrativa, esplodono in canti e balli. Le coreografie non sono quelle patinate di Broadway; sono scatti di energia grezza, movimenti che nascono dalla polvere delle strade e dal marmo degli uffici, traducendo in gesto e melodia ciò che il dialogo non può contenere. Questa non è un'evasione dalla realtà, ma un suo potenziamento, un'immersione in una forma di iperrealtà dove il sentimento diventa spettacolo. L'effetto è potentemente brechtiano. Come nel teatro epico, la canzone interrompe l'immedesimazione, costringendo lo spettatore a riflettere sulla costruzione della scena, sulla falsità intrinseca di ogni rappresentazione. Siamo di fronte a un Verfremdungseffekt in salsa ranchera: Audiard ci mostra la violenza, la corruzione, il dolore, ma ce li serve su un piatto di lustrini e ritornelli orecchiabili, creando un cortocircuito cognitivo che è al tempo stesso straniante ed esilarante.

In questo sincretismo di generi, la performance di Karla Sofía Gascón è il sole attorno a cui orbita l'intero sistema. Attrice trans che porta nel ruolo un peso di verità vissuta incalcolabile, Gascón compie un miracolo di equilibrio. Il suo Manitas non è una macchietta, ma un uomo intrappolato in un'armatura di violenza e potere, la cui crudeltà è forse la forma più estrema di autodifesa. La sua Emilia non è una semplice liberazione, ma una figura complessa, perseguitata dai fantasmi del suo passato, che cerca una forma di maternità quasi divina per espiare peccati inespiabili. La sua transizione non è solo fisica, ma etica. E qui il film pone la sua domanda più radicale e scomoda: può il male trasmutarsi in bene? Può il denaro macchiato del sangue di centinaia di vittime essere riciclato per finanziare un'associazione che cerca i desaparecidos, spesso vittime dello stesso sistema che ha generato quella ricchezza?

Audiard non offre risposte facili. Anzi, sembra suggerire che il capitalismo, nella sua logica onnivora, sia in grado di assorbire e metabolizzare tutto, persino la redenzione. Emilia Pérez fonda la sua ONG con i proventi del narcotraffico, trasformando il capitale criminale in capitale sociale, in un'operazione che è al contempo un atto di sincera contrizione e un capolavoro di rebranding. È la logica perversa del nostro tempo, in cui anche la beneficenza diventa una performance, un'estensione del potere con altri mezzi. Il film si muove costantemente su questo crinale, sospeso tra la sincerità del melodramma più sfrenato – con tanto di agnizioni, segreti e amori impossibili, in cui echeggia un Almodóvar meno patinato e più crudele – e la lucidità di un'analisi spietata dei meccanismi sociali.

Attorno a Emilia si muovono le altre due figure femminili chiave. Zoe Saldaña offre una prova di straordinaria intelligenza, interpretando Rita non come una spalla, ma come il vero motore narrativo e morale del film. È attraverso i suoi occhi, quelli di una donna pragmatica e disillusa costretta a navigare un oceano di follia, che noi spettatori troviamo la nostra bussola. La sua evoluzione da cinica complice a custode di un segreto impossibile è il vero arco drammatico della storia. Selena Gomez, nel ruolo di Jessi, la moglie inconsapevole di Manitas, incarna invece l'innocenza violata, la vittima di un inganno così colossale da sfiorare il mitologico. La sua performance, specialmente nei numeri musicali, ha una fragilità commovente, quella di chi si ritrova a ballare sulle rovine della propria vita.

Visivamente, il film è un'esplosione di colori saturi che sembra voler negare la cupezza dei temi trattati. La fotografia di Paul Guilhaume tinge il Messico di tinte acide, quasi da fotoromanzo, creando un contrasto stridente tra l'estetica sgargiante e la brutalità latente. È un mondo in cui un interrogatorio può trasformarsi in un numero di tip tap e una confessione straziante può essere cantata a squarciagola. Questo approccio, che potrebbe facilmente scivolare nel ridicolo, è invece la chiave di volta del film. Audiard capisce che per raccontare una storia così estrema, così larger than life, il realismo è una gabbia. Solo abbracciando l'artificio, esibendo la finzione, è possibile toccare il nucleo di verità di questi personaggi. Come nel Lola Montès di Ophüls, la vita diventa un circo, una rappresentazione per un pubblico pagante, e l'identità non è altro che il costume più elaborato.

Emilia Pérez è un'opera che sfida le categorie, un film-Frankenstein assemblato con pezzi di generi diversi che, contro ogni logica, non solo sta in piedi, ma danza con una grazia sgraziata e irresistibile. È un film sulla performatività del genere, certo, ma in senso più ampio è un film sulla performatività di ogni cosa: la giustizia, la famiglia, la morale, la redenzione. Manitas recitava la parte del maschio alfa, Emilia recita quella della santa benefattrice. Entrambe sono maschere, costruzioni sociali indossate per sopravvivere. Forse, sembra dirci Audiard, l'unica verità risiede nell'atto stesso del cambiamento, nella fluidità inarrestabile dell'essere. È un'opera imperfetta, a tratti sovraccarica, che rischia di collassare sotto il peso delle proprie ambizioni. Ma il suo coraggio, la sua follia controllata e la sua profonda, inaspettata umanità ne fanno un evento cinematografico raro e prezioso. Un'opera che canta e balla sull'abisso, e che ci invita a fare lo stesso.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...