1997: Fuga da New York
1981
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Regista
Nel 1972 John Carpenter scrive un soggetto ambientato in un futuro distopico ma non trova nessuna casa di produzione disposta a credere nel progetto: troppo strano, troppo violento, troppo politicamente scorretto. Era una visione anticipatrice, quasi preveggente, di un'America afflitta da una profonda sfiducia nelle istituzioni, ancora scossa dal trauma del Vietnam e in procinto di affrontare lo scandalo Watergate. Un racconto così apertamente cinico e disilluso sul destino urbano e sulla fallacia del governo centrale era forse troppo amaro per un pubblico che, sebbene in transizione, non aveva ancora metabolizzato appieno il senso di disfacimento sociale e morale che avrebbe caratterizzato gli anni successivi. La sensibilità punk e nichilista del film era, insomma, in anticipo sui tempi.
Nove anni dopo, forte del successo di Halloween (1978), che aveva dimostrato la sua maestria nel generare suspense e incassi con budget contenuti, Carpenter riceve la proposta di realizzare il film da parte della casa di produzione AVCO Embassy Pictures che gli mette a disposizione sei milioni di dollari. Una cifra esigua anche per l'epoca, che però, lungi dal rappresentare un limite, si trasformò in un catalizzatore per l'ingegno del regista, costretto a soluzioni visive ingegnose – dai modellini dettagliati per i panorami aerei di Manhattan alle riprese notturne in esterni reali, come le fatiscenti rovine di Union Station a St. Louis, Missouri, che magnificamente evocavano una New York caduta in rovina.
Carpenter piazza la sua cinepresa in una New York futuristica trasformata in prigione a cielo aperto. La collocazione temporale è il 1997, un futuro abbastanza prossimo dove il vertiginoso aumento del tasso di criminalità ha costretto il governo a trasformare l’isola di Manhattan in un ciclopico centro detentivo. Questa premessa, ai tempi, non era solo fantascienza d'intrattenimento, ma una distopia radicata nelle crescenti ansie urbane dell'epoca: la percezione di un'escalation della violenza, il declino dei centri città, il fallimento dei sistemi di riabilitazione. L'idea di trasformare Manhattan in un gigantesco bidone della spazzatura sociale, dove i problemi semplicemente venivano confinati e dimenticati, era una cruda metafora del disprezzo per le classi emarginate e un'accusa alle politiche di mero contenimento.
In questa metropoli-ghetto si aggira la peggiore feccia del globo, tiranneggiata dal Duca, leader di questo microcosmo criminale, interpretato con teatrale crudeltà da Isaac Hayes. La sua figura è un magnifico contrappunto all'anti-eroe per eccellenza che il film ci presenta. Quando l’aereo presidenziale precipiterà per un’avaria e il primo cittadino USA (un ipocrita e pavido Donald Pleasence) cadrà in mano al Duca, sarà Iena Plissken a dover togliere le castagne dal fuoco alle istituzioni. Kurt Russell, nel ruolo di Iena Plissken, forgia un'icona destinata a durare: un reduce di guerra cinico e disilluso, un criminale di guerra decorato che è l'esatta antitesi dell'eroe d'azione patinato, più vicino a un Clint Eastwood de "Il buono, il brutto, il cattivo" calato in un inferno urbano. Il suo occhio bendato, il passo strascicato e la voce roca, insieme a un perenne sarcasmo, ne fanno un archetipo della ribellione individualista contro un sistema corrotto che non merita alcuna lealtà.
Sarà inviato nella malebolgia dantesca a recuperare il prezioso ostaggio con un congegno a tempo iniettato nelle sue vene pronto ad esplodere allo scadere del tempo a lui concesso. Questo espediente narrativo non è solo un brillante motore per la tensione, ma un simbolo della totale spersonalizzazione e coercizione esercitata dal potere: Plissken è ridotto a un mero strumento, la sua stessa vita una valuta negoziabile. È un film oscuro e ben sceneggiato, con un ritmo narrativo incalzante e un protagonista mitologico. La sua oscurità non è solo estetica, ma tematica: il film dipinge un quadro desolante della natura umana e del potere, suggerendo che, al di là delle retoriche politiche, la violenza e la prevaricazione sono le vere forze motrici.
Le musiche, realizzate dallo stesso Carpenter in collaborazione con Alan Howarth, sono angoscianti ed oppressive, del tutto funzionali alla narrazione. Il marchio di fabbrica del regista, fatto di sintetizzatori pulsanti, droni atmosferici e melodie minimaliste ma incisive, crea un paesaggio sonoro che è quasi un personaggio a sé stante. I temi cupi e ripetitivi amplificano il senso di minaccia incombente e la disperazione, trasformando le sequenze in un'esperienza quasi sensoriale, dove il suono è tanto cruciale quanto l'immagine nel costruire la claustrofobia di Manhattan. L'influenza di queste partiture, oggi, è riconoscibile in innumerevoli colonne sonore di genere, a dimostrazione della loro originalità e potenza.
Interessante l’uso della luce in questa pellicola, uno spettro di sfumature cupe che copre ogni tonalità di nero: da quelle nebbiose e tremolanti degli esterni (perennemente in notturna, a rimarcare una notte infinita di speranza perduta) a quelle gotiche e incerte degli interni, dove gli uomini si rintanano per trovare scampo dalla furia degli eventi. Carpenter, maestro nell'arte di creare atmosfere con risorse limitate, sfrutta al massimo il contrasto tra le luci al neon tremolanti e le ombre profonde, conferendo al film una dimensione quasi pittorica, un neo-noir distopico che evoca un senso di isolamento e desolazione. La fotografia di Dean Cundey non si limita a illuminare la scena, ma la modella, rendendo la stessa New York una creatura tentacolare e minacciosa. Il film non è solo un action, ma un'opera profondamente radicata nelle ansie del suo tempo, una distopia sociale che ancora oggi risuona per la sua brutale onestà e il suo iconoclasta spirito ribelle.
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