E.T. l'extra-terrestre
1982
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Regista
Un requiem per l'infanzia perduta, mascherato da favola fantascientifica. O forse, più accuratamente, un'epifania suburbana. Prima di sezionare il capolavoro di Steven Spielberg del 1982, è necessario liberare il campo da un equivoco persistente: E.T. l'extra-terrestre non è semplicemente un film per bambini. È un film sull'infanzia, che è una proposizione teologica, filosofica e cinematografica del tutto differente. È un'opera che utilizza il linguaggio archetipico del racconto di formazione per mettere in scena un dramma profondamente spirituale, quasi una sacra rappresentazione ambientata tra i vialetti ordinati e le case a schiera della San Fernando Valley.
Spielberg, qui al suo zenit creativo, non dirige un film; orchestra un'esperienza emotiva di rara purezza. Lo fa partendo da un'assenza, da una ferita primigenia che è tanto biografica (il divorzio dei suoi genitori) quanto archetipica: la famiglia spezzata. La casa di Elliott non è un focolare, ma uno spazio di solitudini che si sfiorano. Il padre è una figura fantasma, menzionato solo per la sua fuga in Messico con una nuova compagna. La madre, Mary (una Dee Wallace superba nella sua vulnerabilità), è amorevole ma sopraffatta, incapace di colmare il vuoto cosmico che si è aperto nel cuore del suo secondogenito. È in questo deserto affettivo, in questo paesaggio dell'anima reaganiano fatto di consumismo nascente e di un'inquietudine latente, che atterra il messia.
Perché E.T., nella sua goffa e asimmetrica biologia, è una figura cristologica in tutto e per tutto. La sua analisi non può prescindere da questa chiave di lettura, che Spielberg dissemina con una coerenza iconografica quasi sfacciata. L'arrivo dal cielo in una nave di luce; la scoperta da parte di "discepoli" puri di cuore (i bambini), gli unici capaci di vedere oltre la sua mostruosità; i poteri taumaturgici (la guarigione del dito di Elliott, la rianimazione del geranio); la connessione empatica così profonda da diventare una forma di stigmata, con Elliott che sente fisicamente il dolore e l'ubriachezza dell'alieno. L'intera seconda metà del film è una Passione in piena regola. Gli agenti governativi, rappresentati come un'entità anonima e oppressiva (le loro facce rimangono nascoste per gran parte del film, filmate ad altezza di bambino come un bosco di gambe e torsi minacciosi), sono i romani o il sinedrio. Irrompono nel sacro tempio della casa, violandone l'intimità con la loro scienza fredda e asettica. La quarantena forzata, la tenda di plastica, è il sudario tecnologico in cui E.T. viene "crocifisso" dalla ragione adulta, che non può comprendere il miracolo e quindi deve vivisezionarlo.
La morte e la resurrezione sono esplicite. Il cuore di E.T. che si spegne, il pianto disperato di Elliott sulla sua bara improvvisata, è una moderna Pietà. E poi, il miracolo: la luce rossa che si riaccende nel petto, la palingenesi innescata dalla fede incrollabile di un bambino. L'ascensione finale, con la rampa dell'astronave che scende tra gli alberi come una scala di Giacobbe e la scia arcobaleno nel cielo, chiude il cerchio teologico. Persino il gesto iconico del dito che si tocca, omaggio diretto alla Creazione di Adamo di Michelangelo, cessa di essere un semplice "easter egg" per diventare una dichiarazione di intenti: il contatto tra il divino e l'umano, la scintilla che accende la vita e la fede. L'ultima battuta di E.T., "I'll be right here" ("Io sarò sempre qui"), non è una promessa di un futuro incontro, ma la promessa di una presenza spirituale, l'essenza stessa di ogni fede.
Ma ridurre E.T. a una mera allegoria religiosa, per quanto calzante, sarebbe ingiusto. Il film è anche una potente sovversione del genere fantascientifico. Negli anni '50, l'alieno era il mostro comunista, l'invasore che minacciava il modello di vita americano. Anche in opere più sofisticate come Incontri ravvicinati del terzo tipo dello stesso Spielberg, l'alterità cosmica manteneva un'aura di mistero numinoso e incomprensibile. Qui, l'alieno non è una minaccia né un enigma intellettuale; è un profugo, un essere sperduto e vulnerabile. Il suo design, opera del nostro Carlo Rambaldi, è un colpo di genio anti-hollywoodiano: non è antropomorfo, non è elegante. È tozzo, con un collo telescopico e occhi malinconici da carlino. È una creatura palesemente biologica, quasi un anfibio botanico, che incarna una fragilità commovente. È il "mostruoso benigno", l'emblema del diverso che non chiede di conquistare ma solo di essere compreso e aiutato a "telefonare a casa". In questo, E.T. dialoga più con il Frankenstein di Mary Shelley che con La guerra dei mondi di H.G. Wells. Come la Creatura, E.T. è un reietto il cui aspetto spaventa gli adulti, ma la cui anima anela alla connessione. Elliott, a differenza del Dottor Frankenstein, non fugge dalla sua "creatura", ma la accoglie, la nasconde nel suo armadio – santuario della sua infanzia – e crea con essa un legame simbiotico.
La regia di Spielberg è una lezione magistrale su come abitare un punto di vista. La scelta di mantenere la macchina da presa ad altezza bambino per quasi tutta la prima ora non è un vezzo stilistico, ma il fondamento del patto emotivo con lo spettatore. Il mondo degli adulti è un paesaggio incombente e incomprensibile, fatto di chiavi tintinnanti (il personaggio di "Keys", interpretato da Peter Coyote, è l'unico adulto inizialmente minaccioso che poi rivela di aver condiviso lo stesso sogno di Elliott), di ordini e di preoccupazioni distanti. La vera azione, il vero dramma, si svolge al livello del suolo, tra giocattoli, pizza e lattine di birra. È un universo domestico che la presenza aliena trasfigura in un luogo magico. E poi c'è la musica. La partitura di John Williams non è un commento, è il flusso sanguigno del film. Il tema principale, con il suo crescendo epico e lirico, non accompagna semplicemente l'iconica scena delle biciclette che volano davanti alla luna (un'immagine che si è impressa a fuoco nell'inconscio collettivo di una generazione); è la traduzione in note del sentimento stesso della meraviglia, del trionfo dell'immaginazione sulla gravità del mondo reale.
Il contesto socio-culturale è fondamentale. E.T. arriva in un'America che si sta lasciando alle spalle le incertezze degli anni '70 per entrare nell'ottimismo muscolare dell'era Reagan. Eppure, sotto la superficie di un'economia in ripresa, la famiglia tradizionale si sta sgretolando. Il "latchkey kid", il bambino che torna da scuola con la chiave al collo in una casa vuota, è una figura sociale emergente. Elliott è l'emblema di quella generazione, un bambino dotato di un'enorme intelligenza emotiva ma lasciato a navigare la propria solitudine. E.T. diventa per lui non solo un amico, ma un catalizzatore che ricompone, anche se temporaneamente, i legami familiari. Attraverso la missione comune di salvare l'alieno, il fratello maggiore Michael smette i panni del bullo per diventare un complice, la piccola Gertie supera la paura per abbracciare l'affetto, e la madre Mary è costretta a vedere i suoi figli non più come creature da accudire, ma come individui capaci di un amore e di un coraggio sconfinati.
E.T. resiste al tempo perché, spogliato della sua patina fantascientifica, racconta una verità universale: il bisogno disperato di connessione e la capacità salvifica dell'empatia. È un film che osa essere sentimentale senza mai scivolare nel sentimentalismo, che parla di fede senza essere predicatorio, che celebra l'infanzia senza essere infantile. È la dimostrazione che un blockbuster può essere, allo stesso tempo, un'opera d'arte intima e personale, un mito moderno e una preghiera laica sussurrata al cosmo. Un film che ci ricorda che, a volte, per trovare la nostra strada verso casa, dobbiamo prima aiutare un amico a trovare la sua. E che il miracolo più grande non è volare davanti alla luna, ma sentire il cuore di un altro battere all'unisono con il nostro.
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