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Poster for Everything Everywhere All at Once - La vita, il multiverso e tutto quanto

Everything Everywhere All at Once - La vita, il multiverso e tutto quanto

2022

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Un’opera cinematografica può, in rari e preziosissimi casi, assurgere al ruolo di singolarità culturale: un punto di densità infinita in cui convergono le ansie, le estetiche e le nevrosi di un’intera epoca, per poi esplodere verso l’esterno in una forma radicalmente nuova. “Everything Everywhere All at Once” dei Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) è una di queste singolarità. Non è semplicemente un film; è un collisore di particelle narrativo, un trattato di fisica quantistica applicato al dramma familiare, un’allucinazione dadaista che nasconde al suo centro il cuore pulsante di un’ode umanista. Tentare di descriverlo per generi è un esercizio futile, l'equivalente di catalogare il “Finnegans Wake” di Joyce come “romanzo d’avventura linguistica”. Qui, il wuxia alla Yuen Woo-ping danza un tango febbrile con la fantascienza alla Philip K. Dick, mentre la commedia surreale di un Charlie Kaufman sotto anfetamine si schianta contro il realismo da cinema indipendente di una lavanderia a gettoni sull'orlo del fallimento.

Al centro di questo maelstrom c’è Evelyn Wang (una Michelle Yeoh la cui performance non è una semplice interpretazione, ma la summa ontologica di un’intera carriera), immigrata cinese di mezza età, schiacciata dal peso di un’attività che non decolla, un matrimonio che si sta sfilacciando con il suo mite e adorabile marito Waymond (un Ke Huy Quan tornato dagli abissi di un oblio hollywoodiano con una grazia e una potenza che straziano il cuore), e una figlia, Joy (Stephanie Hsu), la cui identità queer e il cui nichilismo millennial sono per lei un codice indecifrabile. L’innesco della narrazione – un’ispezione fiscale da parte di un’implacabile impiegata dell'IRS, Deirdre Beaubeirdra (una Jamie Lee Curtis irriconoscibile e magnifica) – è il più banale e al contempo il più sisifeo degli inferni moderni. Ma è proprio in questo tempio della burocrazia che il velo di Maya della realtà si squarcia.

Il multiverso, concetto ormai usurato e mercificato dalla macchina del blockbuster supereroistico, viene qui riscattato e restituito alla sua terrificante potenza filosofica. Non è un parco giochi per il fan service, ma la manifestazione fisica e tangibile del rimpianto. Ogni scelta non fatta, ogni bivio ignorato, ogni potenziale inespresso ha generato un universo parallelo. Evelyn non “viaggia” tra questi mondi; li “vive”, assorbendone le abilità attraverso un processo assurdo e geniale chiamato “salto interdimensionale”, che richiede l'esecuzione di un'azione statisticamente improbabile (dichiarare il proprio amore a un’ispettrice delle tasse, infilarsi dei fermacarte nel retto, mangiare un burrocacao). In questo meccanismo c’è già tutta la poetica dei Daniels: per accedere al sublime, bisogna prima abbracciare il ridicolo. Così, Evelyn diventa in un batter d'occhio una star del cinema in un universo che ricorda le pellicole di Wong Kar-wai, una chef teppanyaki in stile “Ratatouille” (ma con un procione, battezzato Racacoonie), una cantante d'opera, una roccia senziente su un pianeta primordiale.

Questa struttura, che potrebbe sembrare caotica, è in realtà una metafora spaventosamente accurata della condizione umana nell'era digitale. Viviamo costantemente bombardati da frammenti di vite altrui, da versioni idealizzate di noi stessi che avremmo potuto essere. Il film traduce l’ansia da scrolling infinito di un feed social in un’epica esistenziale. L'antagonista, la temibile Jobu Tupaki, non è un cattivo convenzionale. È la figlia di Evelyn di un altro universo, un essere onnipotente che ha sperimentato ogni cosa, ovunque, tutta in una volta, e ne è uscita con la più logica delle conclusioni: nulla ha importanza. La sua arma di distruzione definitiva non è una bomba, ma un “Everything Bagel”, un anello nero che ha assorbito letteralmente tutto e che rappresenta il vuoto, il buco nero del nichilismo assoluto. È la depressione cosmica fatta forma.

Se “The Matrix” delle sorelle Wachowski era la parabola della liberazione dalla prigione della simulazione attraverso la conoscenza e la ribellione fisica, “Everything Everywhere All at Once” è la sua evoluzione spirituale per il XXI secolo. Non basta più schivare pallottole; bisogna affrontare il vuoto interiore. E la risposta che il film offre, attraverso il personaggio apparentemente debole di Waymond, è di una semplicità disarmante e di una potenza rivoluzionaria: la gentilezza. La sua filosofia non è passività, ma un'arma strategica. In un universo caotico e privo di senso intrinseco, combattere il fuoco con il fuoco porta solo a più distruzione. L'unica vera ribellione al nichilismo è un atto di amore ed empatia incondizionati. È una tesi che riecheggia l'esistenzialismo di Albert Camus: se l'universo è assurdo, l'unica risposta è creare il proprio significato attraverso la connessione umana. Gli onnipresenti occhietti di plastica (i “googly eyes”) che Waymond attacca ovunque sono il suo antidoto al Bagel, piccoli fari di un'assurdità giocosa e vitale contro l'assurdità annichilente del vuoto.

Il film è anche una profonda e dolorosa meditazione sul trauma generazionale, in particolare all'interno della diaspora asiatica. Le aspettative non soddisfatte del padre di Evelyn (un formidabile James Hong) si sono trasmesse a lei, che a sua volta le proietta sulla figlia Joy. Il multiverso diventa così il palcoscenico per elaborare questo dolore, per vedere i propri genitori e i propri figli non come ruoli fissi, ma come persone complesse con le loro storie e i loro universi di rimpianti. La sequenza ambientata nell'universo in cui gli esseri umani hanno dita a forma di wurstel, che inizia come una gag demenziale, si trasforma in una delle più toccanti e bizzarre storie d'amore mai viste sullo schermo, dimostrando che l'amore può fiorire nelle condizioni più assurde, a patto di superare le barriere della normalità.

A livello meta-testuale, il film è un'apoteosi. La scelta di Michelle Yeoh, icona del cinema d'azione di Hong Kong, non è un caso. Vedere la sua Evelyn imparare il kung fu attingendo a una versione di sé stessa che è, a tutti gli effetti, la vera Michelle Yeoh, crea un cortocircuito meraviglioso tra finzione e realtà. Allo stesso modo, il ritorno di Ke Huy Quan, l'ex bambino prodigio di “Indiana Jones e il tempio maledetto” e de “I Goonies”, che aveva abbandonato la recitazione per mancanza di opportunità, incarna la stessa tematica del film: quella del potenziale inespresso che finalmente trova la sua occasione per brillare. La sua performance, che oscilla tra tre diverse versioni di Waymond (il marito docile, l'eroe d'azione e il romantico CEO), è una masterclass di controllo fisico ed emotivo.

I Daniels dirigono con la furia controllata di chi è cresciuto a pane e internet, videoclip e cinema d'autore. L'editing è una sinfonia epilettica che miracolosamente non perde mai la sua coerenza emotiva. L'uso dei diversi aspect ratio per definire i vari universi, i combattimenti che sono al contempo parodia e omaggio sincero, la capacità di passare da una risata sguaiata a un pianto dirotto nel giro di un taglio di montaggio: tutto contribuisce a creare un'esperienza immersiva e travolgente. È un'opera che, come i romanzi di Thomas Pynchon, abbraccia il caos e l'entropia non per celebrare la confusione, ma per trovare un ordine superiore, un segnale nascosto nel rumore.

“Everything Everywhere All at Once” è un film-mondo, un'opera d'arte totale che agisce come un manuale di sopravvivenza emotiva per un'epoca che ci chiede di essere tutto, ovunque e subito, lasciandoci spesso con la sensazione di non essere abbastanza, in nessun luogo, mai. È un promemoria che nel fragore assordante di infinite possibilità, l'unica cosa che può davvero salvarci è guardare la persona che abbiamo accanto e, invece di vedere i fallimenti e le delusioni, scegliere di vedere l'universo di gentilezza che ha da offrire. È il capolavoro che non sapevamo di aspettare, e di cui avevamo disperatamente bisogno.

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