Excalibur
1981
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Regista
Un sogno febbrile in armatura cromata. Questa è forse la definizione più sintetica e veritiera di Excalibur di John Boorman, un’opera che, a più di quarant’anni dalla sua uscita, pulsa ancora di un’energia primordiale e allucinata, refrattaria a ogni tentativo di facile categorizzazione. Non è un film storico, né un fantasy nel senso tolkeniano che Peter Jackson avrebbe poi codificato. È, piuttosto, un poema visivo, un’opera lirica intrisa di sangue e fango, un tripudio cromatico che fonde la brutalità di un Kurosawa in acido con l'estasi pittorica dei Preraffaelliti. Boorman non mette in scena la leggenda arturiana; la evoca, la scatena, come un incantesimo pronunciato in una lingua dimenticata.
Per comprendere l'audacia quasi folle del progetto, bisogna guardare al suo demiurgo. John Boorman, reduce dal trip metafisico e lisergico di Zardoz (1974) – film con cui Excalibur condivide un'estetica audace e una fascinazione per il mito come motore della psiche umana – si avvicina a Le Morte d'Arthur di Thomas Malory non con il rispetto filologico dello studioso, ma con la foga visionaria del bardo. Comprime un corpus narrativo vastissimo, che copre generazioni, in due ore e venti di racconto ellittico e febbrile, un montaggio di archetipi che si susseguono con la logica ineluttabile di una tragedia greca. Il risultato è un film che a tratti può sembrare affrettato, quasi sbrigativo nel saltare da un evento epocale all'altro, ma è una scelta deliberata. Boorman non è interessato alla verosimiglianza della cronologia, ma all'impatto tellurico dell'archetipo: la nascita del re, il tradimento dell'amico, la seduzione incestuosa, la ricerca del sacro, la caduta del regno. Ogni scena è un quadro a sé stante, un distillato di puro mito.
Il film si apre e si chiude nell'acqua e nella nebbia, elementi che ne definiscono l'ontologia sognante e anfibia, un mondo sospeso tra la realtà e l'altrove. E poi c'è il verde. Un verde smeraldo, innaturale, quasi radioattivo, che impregna ogni fotogramma. È il verde della foresta primigenia, della magia pagana, della fertilità e della putrescenza. Un verde che ricorda certe miniature medievali e allo stesso tempo preannuncia l'estetica di un certo cinema fantasy più autoriale, come se il Pan di Guillermo del Toro avesse vagato per le foreste di Camelot. Questo universo visivo è sorretto da una colonna sonora che è tutto tranne che discreta. Boorman saccheggia Wagner e Carl Orff ("O Fortuna" dei Carmina Burana, all'epoca non ancora abusata dalla pubblicità), e lo fa con una spudoratezza magnifica. L'uso del "Siegfried's Funeral March" dal Götterdämmerung non è un semplice accompagnamento, è una dichiarazione d'intenti: questa non è la storia di un re inglese, è il crepuscolo degli dèi, la fine di un'era mitologica.
Al centro di questo mondo in transizione si muove la figura più affascinante e complessa del film: Merlino, interpretato da un Nicol Williamson istrionico, eccentrico, a tratti ridicolo e subito dopo terrificante. Il suo non è il saggio mentore alla Gandalf. È una creatura liminale, un trickster che appartiene già al passato, un depositario del "Respiro del Drago", la magia della Terra che sta per essere soppiantata dal monoteismo cristiano. La sua lotta non è tanto contro Mordred o le forze del male, quanto contro il tempo stesso e contro la "noia" del mondo umano, che dimentica e va avanti. Il suo rapporto con Morgana (una giovane e magnetica Helen Mirren, che intuisce il potere non come stregoneria, ma come conoscenza proibita) è il vero cuore filosofico del film. Lei impara da lui lo "Charme del Fare", l'incantesimo che trasforma il mondo, per poi usarlo contro di lui e contro il nuovo ordine patriarcale di Artù. Il loro ultimo, agghiacciante incontro, con Merlino intrappolato nel cristallo dalla sua stessa magia, è una metafora potentissima del sapere che si pietrifica in dogma, della magia che, una volta compresa e sistematizzata, muore.
Excalibur è un film profondamente freudiano, quasi junghiano nella sua insistenza sugli archetipi. La spada è il simbolo fallico per eccellenza, estratto dalla roccia (la madre terra) per fecondare il regno. La sua rottura coincide con l'impotenza del re e la sterilità della terra ("Il re e la terra sono una cosa sola"). La ricerca del Graal diventa allora una disperata sublimazione, un tentativo di restaurare l'ordine attraverso un simbolo di purezza spirituale che è, a sua volta, un'allegoria del grembo femminile. L'intera narrazione è un intrico di pulsioni primarie: l'inganno di Uther che giace con Igrayne è il peccato originale che macchia la nascita di Artù; l'amore adultero tra Lancillotto e Ginevra è la ferita insanabile nel cuore del regno; l'incesto tra Artù e la sorellastra Morgana genera Mordred, l'agente del caos, il figlio-nemesi corazzato d'oro che non è altro che il ritorno del rimosso, il peccato del padre che torna per distruggerlo. La battaglia finale, tra un Artù morente e un Mordred spettrale, avvolta in una nebbia arancione da tramonto nucleare, non è lo scontro tra bene e male, ma una sorta di annichilimento cosmico, un Ouroboros di violenza che si morde la coda.
Certo, visto con gli occhi del ventunesimo secolo, Excalibur può apparire a tratti goffo. La recitazione è volutamente teatrale, quasi brechtiana nella sua enfasi. I dialoghi hanno una solennità che sfiora il ridicolo involontario ("È il destino!"). Eppure, questi presunti difetti sono parte integrante della sua potenza. Il film non aspira al realismo psicologico, ma alla grandezza dell'epica. Le armature, pesantissime e quasi impossibili da indossare per gli attori (tra cui spiccano futuri divi come Liam Neeson e Gabriel Byrne), non sono costumi, sono gusci simbolici, idoli metallici che imprigionano corpi fragili e desideranti. La violenza è brutale, improvvisa, priva di ogni coreografia eroica: spade che affondano nella carne con un rumore sordo, sangue che schizza su armature immacolate. È un mondo di una bellezza abbagliante e di una crudeltà insopportabile, come una pagina miniata su cui qualcuno abbia versato del sangue fresco.
Excalibur si colloca in un limbo affascinante della storia del cinema. È troppo carnale e violento per essere un fantasy per famiglie, ma troppo sincero e romantico per essere un'opera cinica o decostruzionista. Precede di decenni il "grimdark" di Game of Thrones, ma ne anticipa la commistione di sesso, potere e violenza, pur mantenendo sempre uno sguardo lirico e tragico, mai nichilista. A differenza dell'approccio quasi documentaristico e testuale di Peter Jackson con Il Signore degli Anelli, che traduce la prosa di Tolkien in un cinema maestoso ma fondamentalmente narrativo, Boorman traduce la poesia di Malory in un cinema puramente visionario. Se Jackson costruisce un mondo, Boorman scatena un'allucinazione collettiva. È un'opera che non chiede di essere capita razionalmente, ma sentita a livello epidermico. È il clangore del metallo, il sapore del sangue, l'odore della nebbia. È un film imperfetto, eccessivo, squilibrato e assolutamente, innegabilmente, un capolavoro. Un sogno da cui, ancora oggi, è meravigliosamente difficile svegliarsi.
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