Fa' la cosa Giusta
1989
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Regista
Spike Lee rivela al mondo il suo talento con un film dai ritmi concitati e ben congegnati, da molti considerato come il suo capolavoro assoluto. Non è un epiteto casuale, né una iperbole da critico entusiasta; Fa' la cosa giusta si erge come un monumento cinematografico, una pietra miliare che non solo ha ridefinito il cinema afroamericano, ma ha anche posto interrogativi scomodi sulla natura del conflitto razziale in America, risuonando con una potenza che trascende la sua epoca. È un’opera che ha fissato un canone, influenzerà generazioni di registi e critici, e che rimane perennemente attuale nel suo implacabile scrutare le fratture sociali, consacrando Lee come una delle voci più penetranti del cinema contemporaneo.
Quando uscì nelle sale americane una parte della critica legata ai giornali repubblicani accusò Lee di fomentare rivolte razziali. Questa reazione isterica non solo rivelava una profonda incomprensione dell'intento artistico del film, ma anche la latente ansia di una nazione incapace di confrontarsi con le proprie contraddizioni. Era il 1989, e il dibattito sulla razza era già un nervo scoperto negli Stati Uniti, con recenti episodi di violenza razziale che alimentavano una tensione sotterranea. La canzone Fight The Power dei Public Enemy, leit motiv del film, fu considerata socialmente eversiva dato che il testo incitava a ribellarsi al potere istituzionale, al capitalismo e in sostanza, allo stile di vita americano. Ma "Fight the Power" è molto più di una semplice colonna sonora; è un personaggio a sé stante, un battito cardiaco pulsante, un grido di battaglia che permea ogni scena, elevando la tensione con la sua cruda energia e la sua retorica inequivocabile. La sua presenza costante amplifica il senso di un'ingiustizia profonda che cova sotto la superficie, suggerendo che le richieste di cambiamento sono ormai ineludibili, non una mera suggestione di violenza, ma l'espressione di un malcontento represso e destinato a esplodere.
L’arco cronologico del film si esaurisce in una giornata trascorsa in un quartiere di Brooklyn. Questo microcosmo urbano, il Bedford-Stuyvesant, diventa una sorta di palcoscenico per una tragedia shakespeariana moderna, un affresco vivido e pulsante di umanità alle prese con il caldo torrido di un'estate newyorkese, che non è solo una condizione climatica ma una metafora palpabile dell'oppressione, dell'irritabilità e dell'esacerbazione delle tensioni. Il proprietario di una pizzeria, Sal Fragione, subisce un "furto" che non è di beni materiali, ma di dignità e riconoscimento culturale, incarnato dalla richiesta di Buggin' Out di includere volti neri nel "Muro della Fama" della pizzeria, dominato solo da icone italo-americane. Non è un furto, bensì un affronto alle sue certezze, un catalizzatore di un conflitto più grande. Loschi personaggi – in realtà un caleidoscopio di tipi umani complessi, ognuno con le proprie sfumature di virtù e pregiudizio, dall'idealismo intransigente di Buggin' Out alla saggezza amara di Da Mayor, passando per l'energia ambigua di Radio Raheem e la rassegnazione di Mookie – sfideranno il caldo asfissiante per interagire, venire in conflitto, soverchiare l’altro da sè, in una girandola di azioni ostili che si nutrono di malintesi, micro-aggressioni e una profonda, viscerale stanchezza.
Ad un certo punto del film si ha come l’impressione di trovarsi invischiati in una concatenazione senza fine di causa-effetto con un frustrante senso di impotenza unito alla morbosa curiosità di sapere come andrà a finire. Lee orchestreggia questa ascesa al culmine con la maestria di un direttore d'orchestra o di un drammaturgo teatrale, ogni interazione, ogni sguardo sbieco, ogni parola sconsiderata agendo come un colpo di grancassa che avvicina l'inevitabile. La tensione è palpabile, quasi soffocante, grazie anche all'uso sapiente del colore – i rossi e gli arancioni infuocati della fotografia di Ernest Dickerson che avvolgono il quartiere in un'aura di imminente catastrofe – e al montaggio ritmico che amplifica il senso di claustrofobia. Non c'è un vero e proprio "cattivo" tradizionale; la tragedia è il prodotto di un sistema, di paure radicate e di fallimenti comunicativi che si accumulano fino a esplodere in una sequenza finale di sconvolgente brutalità. L'ambiguità del finale, con Mookie che lancia il bidone della spazzatura contro la vetrina, non offre catarsi, ma lascia lo spettatore in un limbo di riflessione, costretto a confrontarsi con la propria etica e la propria percezione della giustizia.
Un film emblematico per comprendere più da vicino le tensioni razziali nel formicaio umano che prende il nome di New York. Fa' la cosa giusta dipinge un quadro sfaccettato e dolorosamente autentico delle dinamiche interrazziali, non limitandosi al binomio bianco/nero, ma esplorando anche le frizioni interne alla comunità afroamericana, le relazioni con gli immigrati coreani e gli ispanici, rivelando la complessità di una società multietnica dove i pregiudizi si annidano in ogni angolo, pronti a esplodere sotto la pressione del disagio sociale. Spike Lee non assume alcun atteggiamento moralistico nè si erge per giudicare, semplicemente documenta attraverso la cronaca, muovendo i suoi personaggi e narrando la storia con grande vigore espressivo. La sua regia è un atto di osservazione acuta, non di condanna. Egli ci invita a guardare, ad ascoltare, a sentire il calore e la rabbia che ribollono, senza fornire risposte facili, ma ponendo domande urgenti. La sua scelta di terminare il film con due citazioni contrastanti di Martin Luther King Jr. e Malcolm X – l'una sulla non-violenza, l'altra sulla difesa con "ogni mezzo necessario" – è un colpo di genio, che racchiude l'eterno dilemma della lotta per la giustizia razziale e costringe il pubblico a confrontarsi con l'ambiguità morale e la frustrante assenza di una soluzione univoca. È in questa onestà brutale e nella sua inequivocabile risonanza culturale che risiede la sua grandezza duratura, un film che non solo ha fatto la storia del cinema, ma che continua a farci interrogare su cosa significhi, in fondo, "fare la cosa giusta" in un mondo che sembra non imparare mai.
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