Falstaff
1965
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Regista
Welles paga il suo debito con Shakespeare realizzando un’opera di struggente lirismo mediante una rischiosa operazione di “collatio” eseguita su diversi drammi scespiriani: Enrico IV, Enrico V, Le allegre comari di Windsor, Riccardo II. Non è forse un caso che l’eclettismo di Welles, la sua inesausta curiosità per le forme narrative e la sua audacia quasi titanica nel manipolare la materia primigenia, trovino nel Bardo la tela perfetta per il proprio genio. Questa “collatio” non è mero collage, bensì una vera e propria distillazione alchemica, un’operazione ermeneutica che mira a estrarre dal corpus shakespeariano una nuova e più intensa verità tragica, focalizzandosi sul destino di Sir John Falstaff, archetipo della libertà e dell’autenticità, destinato a soccombere sotto il peso della ragion di stato e della spietata ascesa al potere. È un atto di filologia visionaria, che crea una coerenza drammatica superiore, un arco narrativo per il personaggio che Shakespeare stesso aveva disseminato, ma mai con tanta concentrata e devastante intensità.
Si aggiunga che il film viene prodotto con grande scarsità di mezzi, una condizione di perenne esilio e lotta finanziaria che aveva funestato gran parte della carriera post-Hollywoodiana di Welles. Ogni inquadratura, ogni scelta stilistica di Falstaff (noto anche come Campanadas a medianoche) è intrisa della testardaggine e dell'ingegno di chi opera ai margini, trasforma la necessità in virtù. I set sono spesso spogli o evocati con pochi dettagli essenziali, le location reali sfruttate con maestria per suggerire epoche e atmosfere, i costumi riciclati o improvvisati. Questa economia di mezzi, lungi dal limitare la visione, la esalta, costringendo Welles a un rigore formale e a una stilizzazione che conferiscono all'opera una qualità quasi onirica, un'astrazione pittorica che evoca i chiaroscuri della pittura fiamminga o le acqueforti di Goya, confermando come il genio possa fiorire anche nell'aridità più estrema, plasmando il nulla in sostanza vibrante.
Nonostante tutto questo un capolavoro plasmato dal nulla è il risultato, frutto del genio di un uomo di cinema come veramente pochi furono. La maestria di Welles non risiede solo nella sua visione autoriale, ma nella sua capacità di tradurre il testo in puro linguaggio cinematografico: la profondità di campo che crea labirinti visivi, gli angoli di ripresa arditi che deformano e magnificano, il montaggio sincopato e quasi espressionista che culmina nella leggendaria sequenza della Battaglia di Shrewsbury, dove il caos e la brutalità del conflitto sono resi con un ritmo febbrile, quasi astratto, una danza macabra che trascende la mera rappresentazione storica per divenire una meditazione sulla futilità della violenza. Un tour de force visivo che si contrappone per la sua dinamica concitazione ai momenti di quieta, struggente contemplazione.
Welles interpreta Falstaff, l’uomo che viene rinnegato dal suo amico d’infanzia, Enrico IV, non appena questi sale al trono. È una performance monumentale, un'incarnazione che travalica la semplice recitazione per attingere a una dimensione quasi mitologica. Welles non si limita a vestire i panni del corpacciuto cavaliere, ma lo abita con la propria stessa, complessa biografia di genio incompreso, di figura titanica ma vulnerabile, eternamente in lotta con le contingenze del potere. Il suo Falstaff è un amalgama sublime di buffoneria e saggezza, di bonaria epicureismo e di malcelata disillusione, un padre putativo e un compagno di bagordi la cui vitalità irrefrenabile è destinata a spegnersi sotto il peso di una realtà che non tollera più la sua anarchica libertà. La sua voce cavernosa, il suo sguardo pesante ma intriso di un'ironia amara, la sua fisicità imponente che si muove con inaspettata grazia o con desolante lentezza, costruiscono un personaggio di incommensurabile pathos, un simbolo di un mondo che sta svanendo.
Il malinconico sguardo di Falstaff abbraccia un’intera vita e assiste impotente alla disgregazione di una rete di affetti e ricordi caduti improvvisamente nell’oblio. Questa è la vera tragedia del film: non la morte fisica, ma la morte dell'amicizia, la cancellazione di un passato condiviso, il tradimento degli ideali più puri in nome della ragion di stato. L'abbandono di Hal è il colpo mortale, un gesto di cinica pragmatismo politico che condanna Falstaff a una solitudine desolante, a un esilio interiore. Welles cattura il silenzio assordante di quel rifiuto, il peso della dignità calpestata, la malinconia di un'età dell'oro perduta. Il film si trasforma così in un lamento elegiaco non solo per Falstaff, ma per un'intera epoca, per l'innocenza che la giovinezza è costretta a sacrificare sull'altare del potere, per i legami umani che vengono lacerati dalla fredda logica del governo.
Un film che ritaglia i contorni dell’eroe decadente: nel totale abbandono la poetica della dissoluzione appare come un iperuranio suadente, a cui è impossibile resistere. Falstaff non è solo un personaggio che decade, ma l'incarnazione stessa della decadenza, intesa non come fallimento morale, ma come inevitabile processo di consunzione di un'epoca, di un'etica. La sua figura si staglia come un monito, una scultura di malinconia che prefigura la fine di un mondo cavalleresco, sostituito dalla fredda razionalità della politica moderna. La "poetica della dissoluzione" si manifesta non solo nel destino del protagonista, ma nella stessa estetica wellesiana: le inquadrature spesso frammentate, le silhouette avvolte nell'ombra, i volti illuminati da una luce caravaggesca che ne svela la stanchezza e la rassegnazione, la musica che accompagna con toni dolenti il tramonto. L'iperuranio qui non è un luogo platonico di idee perfette, ma un regno metaforico dove il dolore e la perdita assumono una forma ideale, una bellezza tragica a cui l'animo umano, nella sua fragilità, non può che arrendersi, riconoscendovi la propria ineludibile sorte. È la dissoluzione di un sogno, la fine di una vitalità anarchica schiacciata dalle convenzioni e dalle ambizioni, un tema che risuona con la personale odissea artistica di Welles, un genio costantemente in rotta con l'establishment.
Welles si sdoppia: sublime interprete e magico burattinaio a tirare i fili dei personaggi in scena. La sua regia è un atto di manipolazione sapiente, un gioco di ombre e luci che rivela e nasconde, un'orchestrata sinfonia visiva che traduce la complessità del testo shakespeariano in un linguaggio cinematografico denso e stratificato. Ogni movimento di macchina, ogni scelta di montaggio, ogni uso del suono (spesso distorto, lontano, come un ricordo svanito) è finalizzato a evocare l'intensa drammaticità della narrazione e la profonda malinconia che permea ogni fotogramma. Welles è al contempo l'oggetto e il soggetto della propria visione, un demiurgo che dà forma al proprio alter ego cinematografico, un Falstaff che è anche un po' Welles stesso, titanico e tragico, un monumento alla grandezza e alla solitudine del genio.
Possente e visionario, Falstaff non è solo un adattamento shakespeariano, ma un'opera profondamente personale, un testamento artistico che riflette le ossessioni di un autore fuori tempo massimo, un canto del cigno per un'idea di cinema epico e profondamente umano. È un film che, nel suo commovente lirismo e nella sua spietata analisi del potere e dell'amicizia tradita, continua a risuonare con una verità atemporale, consolidando la posizione di Welles come uno dei più grandi e tragici visionari della settima arte.
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