Fanny e Alexander
1982
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Regista
Il lascito spirituale di un grande uomo di cinema: un’opera maestosa, lirica e rivoluzionaria. È l'epilogo sfolgorante di una carriera titanica, non solo un film, ma un'intera cosmogonia racchiusa in fotogrammi, un congedo sontuoso dal grande schermo che Bergman, pur tornando successivamente a dirigere per la televisione, immaginò come il suo definitivo testamento artistico. Un'opera che, pur annunciando un addio, risuona con la vitalità di una rinascita, un viaggio profondo nel labirinto della memoria e della fantasia.
Distribuita in due versioni, una di 190 minuti, l’altra di 312, più attinente alla visione di Bergman che desiderava presentare al pubblico una saga familiare à la Mann. Questa ambizione, quella di costruire una cattedrale narrativa imponente e dettagliata, si manifesta pienamente nella versione estesa, concepita originariamente come miniserie televisiva per la SVT. È proprio in questa forma monumentale che l'affresco di Bergman dispiega la sua ricchezza quasi romanzesca, offrendo al pubblico non solo una storia, ma un intero universo di personaggi, relazioni e micro-drammi che si dipanano con la sontuosa lentezza e la penetrazione psicologica tipiche dei grandi romanzi ottocenteschi. Il paragone con Thomas Mann non è casuale: come i Buddenbrook, gli Ekdahl sono una famiglia borghese, ma la loro borghesia è intrisa di un'esuberanza bohémien, di una teatralità innata che contrasta splendidamente con la sobrietà e la rigidità luterana dell'epoca.
La storia è appunto quella di una famiglia, gli Ekdahl, in una città svedese (Uppsala) agli inizi del 900, precisamente dal 1903 al 1905. Bergman, con la meticolosità di un miniaturista e la visione di un affreschista, ricostruisce un'epoca di transizione, un inizio di secolo che pulsa di una vita ancora radicata nelle tradizioni ma già affacciata al modernismo incipiente. La dimora degli Ekdahl, con le sue luci calde e le sue stanze pullulanti di vita, risuona di risate, musica e recite amatoriali, incarnando un Eden infantile destinato a essere scosso dalla violenza del reale.
Fanny e Alexander sono gli esuberanti figli di Emilie, una donna che perderà presto il marito Oscar, direttore del teatro locale, e si risposerà con il vescovo luterano della città, Edvard Vergérus. La loro transizione dal mondo caldo e fantasioso degli Ekdahl a quello austero e repressivo del vescovo è il cuore pulsante e tragico del film. Il mondo degli Ekdahl è un inno alla vita, alla creatività, alla gioia dei sensi; un luogo dove il teatro è non solo professione ma filosofia esistenziale, dove i confini tra realtà e finzione, gioco e vita, sono fluidi e permeabili.
I bambini entreranno subito in conflitto con l’uomo che li ridurrà a dei piccoli miserabili. Il vescovo Vergérus non è solo un antagonista: è la quintessenza dell'autorità moralistica e punitiva, una figura che Bergman, figlio di un pastore protestante, conosceva fin troppo bene nelle sue sfumature più opprimenti. Il suo regime è fatto di fredda disciplina, di silenzi assordanti, di una religiosità dogmatica che soffoca ogni scintilla di fantasia e di autonomia. Alexander, in particolare, con la sua fervida immaginazione e la sua insopprimibile tendenza a confondere verità e menzogna (o forse, a creare la propria verità), diventa il bersaglio prediletto di Vergérus, innescando una battaglia psicologica per la sopravvivenza dello spirito. Il film si trasforma così in una parabola sulla resilienza dell'immaginazione e sul potere della narrazione come strumento di autodifesa e liberazione contro ogni forma di oppressione.
Intorno la grande maestria di Bergman nel ricostruire la sua adorata Svezia di inizio secolo. Questa non è una semplice ricostruzione storica, ma una rievocazione carica di nostalgia e affetto, filtrata attraverso il prisma della memoria infantile. Il direttore della fotografia Sven Nykvist e la scenografa Anna Asp tessono un arazzo visivo di straordinaria bellezza, dove ogni dettaglio, dai costumi sontuosi alle luci calde che inondano le scene familiari, parla di un mondo perduto e desiderato. La dimora degli Ekdahl, un trionfo di tessuti preziosi, mobili intagliati e oggetti d'arte, contrasta nettamente con la geometrica austerità e il freddo grigiore della casa vescovile, quasi un purgatorio in terra. Questa dicotomia visiva è la chiave per comprendere la battaglia spirituale e psicologica che i protagonisti affrontano.
E poi: stridenti contrasti familiari, visioni fiabesche, religione e magia come elementi che danzano e si fondono nella storia. Questi temi non sono giustapposti, ma intricati in una trama narrativa e visiva complessa e affascinante. Il contrasto tra il caotico, affettuoso e pagano clan Ekdahl e la rigida, calvinista e quasi sadica casa del vescovo è il fulcro drammatico. Nel mezzo di questa lotta tra Dionisiaco e Apollonio, tra la vita pulsante e la repressione asettica, si inseriscono le visioni fiabesche di Alexander, che non sono semplici fughe dalla realtà, ma potenti armi di resistenza. Le bugie di Alexander, le sue proiezioni oniriche, i fantasmi che popolano la sua mente diventano un contro-racconto vitale, una forma di verità alternativa che sfida la tirannia della realtà imposta.
La religione, tema ricorrente nell'opera di Bergman e spesso fonte di tormento, qui si manifesta nella sua forma più austera e punitiva attraverso il vescovo, ma trova anche una controparte liberatoria e arcana nella figura di Isak Jacobi, l'anziano mercante ebreo. La sua casa, un labirinto di curiosità esotiche e oggetti magici, diventa un santuario di mistero e salvezza, un luogo dove la magia – intesa come forza mistica e conoscenza esoterica – offre una via d'uscita dall'incubo. Isak, con la sua saggezza antica e la sua capacità di manipolare il "reale", rappresenta una spiritualità meno dogmatica e più vicina al trascendente, in cui il soprannaturale è un'estensione naturale della psiche umana e dell'universo. La scena con lo strano Ismael, enigmatico e androgino prigioniero della casa di Jacobi, eleva il film a vette di inquietudine e mistero, suggerendo la presenza di forze che vanno ben oltre la comprensione umana e la razionalità imposta.
Un vero e proprio testamento iconografico di uno dei più grandi registi di sempre. "Fanny e Alexander" non è solo un compendio dei temi cari a Bergman – l'infanzia violata, il rapporto con Dio, la crisi della fede, il potere liberatorio dell'arte, le dinamiche familiari e la complessità della psiche umana – ma anche una sintesi stilistica della sua intera filmografia. Dal naturalismo più crudo al lirismo più sfrenato, dal dramma psicologico all'elemento sovrannaturale, Bergman orchestra con mano maestra un'opera che è al tempo stesso intimo dramma familiare e grandiosa epopea esistenziale. È un addio malinconico ma trionfante, un'opera definitiva che sigilla il posto di Bergman non solo come maestro di cinema, ma come profondo esploratore dell'anima umana e della sua infinita capacità di sognare, resistere e creare, anche di fronte all'oscurità più profonda. Il film rimane un faro nella storia del cinema, una gemma che continua a brillare con una luce propria, eterna e irripetibile.
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