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Faster, Pussycat! Kill! Kill!

1965

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Media: 4.50 / 5

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Regista

Un film che distrugge ogni comfort, che fa tabula rasa di qualsiasi compromesso artistico per partire dalla bellezza di 3 corpi femminili. Non si tratta di una semplice provocazione formale, ma di un vero e proprio assalto sensoriale e concettuale, un pugno nello stomaco per chiunque si aspetti le rassicuranti cornici narrative del cinema convenzionale. Meyer non si limita a sfidare le convenzioni; le incenerisce, proponendo una visione radicale dove la forma è sostanza, e la rottura è l'unica regola. È un'opera che si erge come un totem iconoclasta, rifiutando ogni mediazione con il buon gusto borghese e le sue ipocrisie, e scegliendo di confrontare lo spettatore con un'estetica cruda, quasi brutale, nel suo rifiuto di ogni edulcorazione. È un'esperienza cinematografica che si colloca agli antipodi della blandizia mainstream, un manifesto di anarchia visiva che anticipa di decenni la furia estetica del punk e la sfacciataggine del camp.

Ma non semplice e casta bellezza virginale, qui si parla di tre creature mostruosamente licenziose, lascive provocanti, donne capaci di avvelenare qualsiasi sogno erotico con il loro carico di sensualità distruttiva, una sorta di arma impropria nelle mani del regista. La loro non è una seduzione per la conquista, bensì un’affermazione primordiale di potere. Varla, interpretata dall'indimenticabile Tura Satana, non è soltanto un simbolo, ma un vero e proprio uragano di libido e aggressività, una presenza ipnotica che incarna la quintessenza dell'antieroina meyeriana. I suoi movimenti, quasi felini, la sua fisicità prorompente e quello sguardo penetrante, che sembra trafiggere lo schermo, trasformano la figura femminile da oggetto di desiderio passivo a soggetto attivo di un'estetica dirompente. Le Pussycat sono Erinni moderne, le Furie di un deserto americano che le ha partorite e che esse stesse contribuiscono a rendere un luogo senza legge né morale, un palcoscenico per un teatro della crudeltà dove la violenza è un linguaggio, e la sfida la forma più alta di comunicazione. La loro carica erotica non è mai conciliante; è un'esplosione, un atto di sabotaggio contro il patriarcato in vesti di vinile e ciglia finte.

Russ Meyer in questo caso è l’indecifrabile Bonzo del “Ludibrium”, un antico gioco erotico latino considerato grottesco e triviale dai censori dell’epoca romana. Ed è esattamente la descrizione che più si attaglia a quest’opera che racconta le bislacche avventure di tre prosperose donzelle che vagano per il deserto a caccia di sesso da divorare e soldi da arraffare. L'allegoria del "Ludibrium" calza a pennello per un autore che ha fatto della volgarità e dell'eccesso la propria bandiera estetica, innalzando il pulp a forma d'arte. Meyer si muoveva in un'America che stava esplodendo tra la repressione puritana e l'emergente controcultura, e lui, con la sua macchina da presa, ne catturava l'essenza più scomoda e inconfessabile. Il suo è un cinema che non teme il cattivo gusto, anzi, lo brandisce come un'arma, una provocazione intellettuale mascherata da b-movie. Il deserto, arido e sconfinato, diventa una metafora perfetta per l'anomia di questi personaggi: un paesaggio post-apocalittico dove le convenzioni sociali sono polvere al vento e le pulsioni primarie regnano incontrastate. Le loro peripezie sono un balletto surreale tra violenza, farsa e una sessualità così sfrontata da rasentare l'assurdo, rivelando la fragilità della "civiltà" di fronte all'irrompere dell'istinto. La narrazione, volutamente frammentaria e spesso slegata, serve a disorientare, a impedire allo spettatore di ancorarsi a qualsiasi logica narrativa rassicurante, rendendo il film un'esperienza quasi dadaista.

Naturalmente troveranno pane per i loro bianchi dentini in un incessante rivolgimento delle parti che spiazzerà ulteriormente (come se ce ne fosse stato bisogno) l’attonito spettatore. La dinamica del potere è qui un fluttuare costante, un gioco al massacro dove le vittime designano i propri carnefici e viceversa, e i ruoli di predatore e preda si interscambiano con una rapidità che lascia senza fiato. Gli uomini, in questo universo meyeriano, sono spesso figure deboli, quasi comiche, o semplici accessori per le ambizioni e i capricci delle donne. Vengono emasculati, manipolati, umiliati, in un rovesciamento totale dell'iconografia maschile dominante nel cinema di quegli anni. L'effetto sullo spettatore è catartico e straniante al tempo stesso: è costretto a confrontarsi con una virilità smontata pezzo per pezzo, e con una femminilità esplosiva che non cerca redenzione, ma solo affermazione. È in questo incessante ribaltamento che il film rivela la sua natura più radicale, andando ben oltre la superficie della mera provocazione.

Un film definito di genere exploitation in cui ogni giudizio etico è ridicolo solo a pronunciarsi, in cui al contrario la cifra estetica trova compimento nel gusto di un regista che ha elevato ad arte la sesta misura di seno femminile, e scusate se è poco. Definirlo semplicemente "exploitation" significa sminuire la sua profonda originalità e il suo impatto culturale. Meyer non si limitava a sfruttare il proibito; lo sublimava, trasformando il feticcio in icona, il tabù in celebrazione visiva. Il suo uso audace del colore, le inquadrature serrate che esaltano le forme, il montaggio frenetico e i dialoghi che sono autentiche perle di insolenza ("You're all sick! You're all sick and I'm glad!") conferiscono a "Faster, Pussycat!" una sua inconfondibile e perversa armonia. È un'opera che si erge fiera nella sua apologia dell'eccesso, un manifesto di irriverenza che ha influenzato generazioni di registi, da John Waters a Quentin Tarantino, dimostrando come la visione più idiosincratica e apparentemente triviale possa, in mani sapienti, trascendere il proprio genere e scolpirsi nella memoria collettiva come un'opera d'arte viscerale e ineludibile.

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