Fight Club
1999
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Regista
C’è una voce dentro ognuno di noi, una parte celata di noi stessi che continua, digrignando i denti e sussurrando nell’ombra, a commentare le nostre azioni, a parlarci furtivamente ispirandocene altre. È l'eco di un io primordiale, un'ombra junghiana che si agita nei recessi della psiche, oppure la manifestazione dell'Es freudiano che brama di sovvertire l'ordine imposto dalla civiltà, una forza archetipica che sfida le convenzioni e la patina di civiltà.
Chuck Palahniuk, scrittore che esplora il registro psicologico di ogni storia che scrive con una crudezza e una lucidità disarmanti, è interessato a capire cosa sia questa voce per farne un portentoso elemento narrativo intorno al quale creare una storia. La sua prosa, affilata come un rasoio e spesso disturbante, si presta a indagare le patologie latenti della società contemporanea, i feticci del consumismo e la crisi identitaria che ne deriva, trasformando il malessere individuale in un grido collettivo.
Il grande congegno narrativo di Fight Club, il suo primo romanzo uscito nel 1996, è incentrato su questa presenza che sdoppia ognuno di noi in un “altro da sè”, come un riflesso riverberato nel quotidiano che prenda vita, un angelo custode fabbricato tra le pieghe della nostra coscienza. È una narrazione che sfiora il bildungsroman al contrario, dove la crescita non è verso l'integrazione, ma verso una radicale frammentazione, un viaggio nichilista nell'abisso della psiche.
Fight Club è una storia non facile da trasporre sul grande schermo, contiene implicazioni psicologiche difficili da rendere visivamente e una trama sicuramente politically incorrect nel suo assalto diretto al cuore pulsante del capitalismo e della mascolinità tossica, eppure Fincher ne tira fuori un film sontuoso dove ogni cosa appare perfettamente sincronizzata e asservita al meccanismo narrativo. La regia di Fincher non si limita a illustrare la storia, la eleva, la disseziona e la ricompone con una maestria che ne fa un'opera d'arte a sé stante. La sua cifra stilistica – l'estetica cupa, la fotografia ossessivamente pulita di Jeff Cronenweth, il montaggio nevrotico che talvolta inserisce frames subliminali di Tyler Durden prima della sua rivelazione – trasforma l'inquietudine del romanzo in un'esperienza viscerale e perturbante. Il suono, curato maniacalmente, con la colonna sonora industrial dei Dust Brothers, diventa un personaggio aggiuntivo, un pulsare ritmico che amplifica l'alienazione e la violenza catartica.
Il protagonista (il cui nome non viene mai rivelato, enfatizzando la sua anonima intercambiabilità nel sistema che lo inghiotte) lavora per una compagnia automobilistica, nel ramo assicurativo. È un ingranaggio di un sistema che garantisce la stabilità finanziaria a scapito dell'anima.
È nevrotico, schiavo degli oggetti che acquista con maniacale serialità, ossessionato dall'arredamento Ikea e da un catalogo di vita prefabbricata, paranoico e frustrato da una vita trascorsa in solitudine, frequentatore assiduo di gruppi di ascolto delle malattie più disparate per assecondare un morboso voyeurismo e poter piangere in gruppo perseguendo una sorta di terapia catartica. La sua ricerca di un'emozione autentica, persino di un dolore non suo, in un mondo anestetizzato dal consumo, è un sintomo della sua profonda anomia, una patologia esistenziale mascherata da nevrosi d'ufficio.
Durante uno sei suoi viaggi d’affari incontra l’uomo che gli cambierà la vita: Tyler Durden. Un moderno Mefistofele, un demiurgo del caos che irrompe nella sua esistenza asettica.
Questi si qualifica come un venditore di saponette, sembra un bizzarro ragazzo un po’ svitato, ma la sua disinvoltura, il suo fascino animale e la sua radicale estraneità alle regole del mondo borghese lo rendono irresistibile per un uomo che ha perso ogni senso di sé.
Rientrando a casa il narratore scopre che la sua casa è andata distrutta da una fuga di gas, disperato telefona a Durden che si offre di ospitarlo nella sua fatiscente abitazione. Un invito a scendere negli inferi, a spogliarsi di ogni comfort materiale per abbracciare l'autenticità brutale della strada.
Frequentando Durden il narratore assumerà le sue abitudini di frequentatore della notte metropolitana imparando a battersi come terapia per curare il proprio spirito. La violenza non è fine a sé stessa, ma un rituale iniziatico, una via per riscoprire il proprio corpo, il proprio dolore, la propria vera essenza al di fuori delle gabbie dorate del consumismo.
Inizia così la creazione di un club dove i membri di tutte le estrazioni sociali se le suonano di santa ragione, soltanto per il gusto di sfogarsi, senza alcuno scopo agonistico. È un club di liberazione, un rito primordiale per uomini castrati dalla società moderna, una reazione viscerale alla crisi della mascolinità contemporanea. Qui, il corpo si riafferma come ultimo baluardo dell'esistenza, il dolore fisico come ultima, autentica sensazione in un'esistenza altrimenti ovattata.
Con l’andare del tempo quella che sembrava una setta underground di sciroccati si trasformerà in un’organizzazione paramilitare con scopi eversivi. Il "Progetto Mayhem" non è più solo terapia, ma un manifesto anarchico, una crociata contro le fondamenta del sistema capitalistico, contro le banche e le carte di credito che ingabbiano l'uomo in una spirale di debito e finto benessere. Questa progressione dal personale al politico, dalla catarsi individuale alla sovversione sociale, è uno degli aspetti più affascinanti e controversi del film, che molti hanno frainteso come un'apologia della violenza, quando in realtà è una satira pungente sulla disperazione di una generazione.
Una volta compresi i reali scopi di Durden il narratore cerca disperatamente di appellarsi a lui per non commettere attentati, ma la domanda che pone a Durden risuona come un’eco in una grande stanza vuota, un pallido riflesso proveniente da uno specchio che gli rimanda il suo volto stralunato. Il meccanismo del narratore inaffidabile, un topos letterario qui reso con maestria cinematografica, si svela in tutta la sua potenza. La scoperta non è solo una rivelazione della trama, ma una profonda indagine sull'identità, sulla frammentazione della psiche e sulla lotta interna tra il desiderio di conformità e l'impulso alla distruzione. Il climax non è esterno, ma un'epica battaglia tra le due metà di un unico individuo, un conflitto shakespeariano che si consuma nel cuore della notte urbana.
Niente è come sembra, non lo è mai in realtà. E proprio questa ambiguità, questa costante messa in discussione della percezione e della realtà, ha reso Fight Club un cult generazionale, un film che continua a provocare, affascinare e generare dibattito, decenni dopo la sua controversa uscita in sala, rimanendo un sismografo perfetto delle nevrosi del XXI secolo.
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