Cinque Pezzi Facili
1970
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Regista
Robert Dupea aveva tutto: una ricca famiglia e un promettente futuro da brillante pianista. Eppure l’uomo si lascia tutto alle spalle per un lavoro nel campo petrolifero e per una vita più che ordinaria lontano da casa. Una scelta che, all'epoca dell'uscita del film nel 1970, risuonava con una risolutezza quasi iconoclasta, incarnando lo spirito di un'intera generazione in bilico tra la ribellione giovanile e l'ineludibile confronto con la realtà. Non è semplicemente una fuga, ma un atto di abiura radicale verso un destino precostituito, una dichiarazione di guerra silente contro le convenzioni borghesi e l'asfissiante retaggio di un'educazione improntata al perfezionismo e all'eccellenza. La sua decisione di immergersi in un'esistenza proletaria, tra i fumi delle trivelle e la volgarità di un motel, è un tentativo disperato di svincolarsi da una prigione dorata, di trovare un'autenticità grezza che il suo ambiente d'origine gli negava. Questa rinuncia radicale lo pone fin da subito come un'incarnazione del disincanto che permeava l'America post-sessantottina, un'America che stava iniziando a dubitare dei suoi stessi miti fondativi.
Quando la sorella lo richiamerà a Washington a causa di una grave malattia del padre sarà l’occasione per riaffacciarsi sul suo passato e dipanare l’origine psicologica delle sue scelte. Questo ritorno a casa non è un pellegrinaggio ma un'immersione forzata in un passato mai davvero sepolto, un'archeologia dell'anima che lo costringe a confrontarsi con i fantasmi di un'educazione tanto privilegiata quanto opprimente. La tenuta di famiglia, un santuario dell'arte e della disciplina, diventa lo scenario di una resa dei conti muta, dove ogni membro incarna un aspetto della sua fuga: la sorella Partita, anch'ella pianista e figura di rassegnata eccellenza, la personificazione del percorso che Robert ha rifiutato; il fratello Carl, un musicista bloccato nel ruolo di curatore della famiglia, una figura di stagnazione e di accettazione passiva; e il padre, la fonte primigenia di quella pressione soffocante che lo ha spinto alla deriva. Lì, tra arredi sontuosi e conversazioni rarefatte, l'aria si fa più densa e le motivazioni di Robert si rivelano non come un semplice capriccio, ma come la conseguenza di un rifiuto viscerale di un'identità imposta, di un ruolo che lo avrebbe soffocato come un vestito troppo stretto.
Jack Nicholson è fantastico nel ruolo del protagonista, donando al personaggio uno spessore conturbante e in qualche modo mistificante. Questa performance, che gli valse una nomination all'Oscar, non è solo una recitazione magistrale; è l'affermazione di un archetipo, la definitiva consacrazione di Nicholson come l'anti-eroe per eccellenza della "New Hollywood". Il suo Robert Dupea è un uomo lacerato, capace di scatti d'ira feroci e di momenti di tenerezza inaspettata, un vulcano represso che minaccia di eruttare ad ogni inquadratura. L'attore infonde al personaggio una miscela unica di carisma seducente e di un disagio quasi patologico, rendendolo simultaneamente affascinante e ripugnante. Non è un eroe tragico nel senso classico, bensì un ribelle senza bussola, un'anima errante che porta con sé il fardello di un'intelligenza acuta e di un'incolmabile solitudine. La sua gestualità nervosa, i suoi sguardi sfuggenti, il suo sorriso sardonico che spesso maschera un abisso di disprezzo e malinconia, tutto contribuisce a costruire un ritratto psicologico di una complessità rara, elevando il film da semplice dramma a studio di carattere epocale, un monito sulla fragilità dell'anima moderna.
Bob Rafelson in cabina di regia affonda la sua indagine nel suo uomo mettendone a nudo debolezze e virtù, in forma freudiana, con metodo distaccato, analitico, quasi scientifico. Questo approccio è la cifra stilistica di Rafelson e del movimento "New Hollywood" di cui lui, insieme a Bert Schneider e Stephen Blauner, fu uno dei pilastri fondatori con la loro mitica BBS Productions. La BBS, un'anomalia nel sistema degli studios di quegli anni, diede ai registi una libertà creativa quasi totale, permettendo l'emergere di opere profondamente personali e disilluse, lontane dallo sfarzo e dall'ottimismo dei decenni precedenti. Rafelson, con Cinque Pezzi Facili, adotta uno sguardo che è al contempo empatico e impietoso, ispirato forse all'alienazione esistenziale dei film di Antonioni o Bergman, ma calato in un contesto profondamente americano, quello dei vagabondaggi on the road e delle esistenze marginali. La sua regia non giudica, ma osserva, lasciando che le interazioni e i silenzi rivelino le fratture interiori del protagonista, come in una seduta di analisi dove il paziente, pur rifiutando di aprirsi, espone ogni nervo scoperto attraverso il proprio comportamento. La narrazione procede per frammenti, quasi a voler riflettere la vita disconnessa di Robert, un mosaico di incontri fugaci e di luoghi provvisori che ne amplificano il senso di precarietà esistenziale.
Un film affascinante, raffinato, introspettivo. Il titolo stesso, Cinque Pezzi Facili, è una metafora sottile e pungente. Si riferisce agli esercizi pianistici basilari che Robert, in un momento di frustrazione e rabbia, esegue per poi rifiutarli con disprezzo, emblema della sua incapacità o riluttanza ad affrontare la vita nelle sue forme più semplici e immediate, preferendo (o essendo condannato a) una complessità autoimposta, un tormento interiore che egli stesso alimenta. Questo è un film che indaga non solo la psiche di un individuo, ma la condizione umana stessa nell'America post-hippie, un'epoca in cui le grandi narrazioni stavano svanendo e l'individuo si trovava solo di fronte al proprio nichilismo e alla propria responsabilità. È un'opera che, con la sua eleganza malinconica, ci interroga sulla natura della felicità, sul significato della libertà e sul prezzo dell'autenticità, suggerendo che spesso, pur cercandola disperatamente, siamo noi stessi a precluderci la possibilità di raggiungerla. La macchina da presa si muove con una grazia quasi coreografica, catturando l'immensità dei paesaggi americani che fungono da specchio alla vastità del vuoto interiore di Robert, dalla piattezza desolata dei campi petroliferi della California all'eleganza fredda e distante delle isole di Washington.
Un’opera interamente incentrata sulla figura di un personaggio che è fondamentalmente un emarginato che abbandona e non può ritornare alla sua vita perchè incagliato da una rete invisibile di insofferenza verso l’umanità. Questa "rete invisibile" non è tanto un ostacolo esterno quanto una barriera interna, un muro eretto da Robert stesso tra sé e il mondo, una sorta di misantropia intellettuale che gli impedisce ogni vera connessione. La sua insofferenza è per la banalità, per la superficialità, per la limitatezza intellettuale ed emotiva altrui. È un elitismo che si maschera da disprezzo per la borghesia, ma che finisce per intrappolarlo in una torre d'avorio di solitudine. La scena iconica del ristorante, in cui Robert si scontra con una cameriera sulla possibilità di ordinare una fetta di pane tostato a lato del suo sandwich al pollo, è un micro-cosmo di questa sua incapacità di compromesso, della sua intolleranza per le piccole, meschine regole del vivere comune. Non è solo la richiesta di un tozzo di pane, ma una dichiarazione di guerra contro l'ottusità, una sfida alla mediocrità che lo circonda e lo soffoca. In quel momento, Robert Dupea non è solo un cliente irritato, ma il simbolo di un'intera generazione che, pur anelando alla libertà, si ritrova incapace di connettersi davvero con essa, prigioniera delle proprie idiosincrasie e della propria, a tratti insopportabile, superiorità morale e intellettuale.
Non c’è una scena in tutto il film infatti in cui Robert sia a proprio agio con le persone che gli stanno intorno, questo fa di lui una sorta di perdente ante litteram, un sociopatico alla deriva nel grande mare della vita che tenta in ogni modo di sopravvivere a se stesso. La definizione di "sociopatico" è forse troppo forte, ma coglie la sua intrinseca incapacità di formare legami autentici e duraturi. È più un eremita esistenziale, un nomade dell'anima che non trova pace né nelle convenzioni del suo passato né nella grezza autenticità del suo presente. La sua ultima, disperata fuga nel finale, un gesto di rottura definitiva e forse autodistruttiva, a bordo di un camion che lo porta chissà dove, suggella il suo destino di eterno outsider, un uomo condannato a vagare, a cercare senza mai trovare, perché ciò che cerca – la libertà totale, l'assenza di compromesso, l'autenticità senza macchia – è intrinsecamente inconciliabile con l'esistenza umana e le sue imperfezioni. Cinque Pezzi Facili non offre risposte facili, né redenzione, ma ci lascia con il ritratto indimenticabile di un uomo spezzato, specchio di un'America in crisi d'identità, un capolavoro di malinconia e disillusione che continua a risuonare potentemente anche a decenni di distanza, monito eloquente sulla complessità del desiderio umano di autenticità e sulla solitudine intrinseca di chi non accetta di conformarsi.
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