Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Frances Ha

2013

Vota questo film

Media: 3.83 / 5

(6 voti)

In un gesto di euforia disperata, Frances corre, salta e piroetta per le strade di New York, le braccia spalancate come se volesse abbracciare i grattacieli o forse solo impedire a se stessa di cadere. Sulle note di "Modern Love" di David Bowie, questa sequenza non è un semplice omaggio, è una trasfusione di sangue cinematografico direttamente da Léos Carax e dal suo Mauvais Sang, che a sua volta attingeva a piene mani dallo spirito anarchico e danzante della Nouvelle Vague. È la dichiarazione d’intenti di Noah Baumbach e Greta Gerwig: stiamo per raccontare una storia ultramoderna, precaria e millennial, ma la filtreremo attraverso l'eleganza senza tempo del bianco e nero e la grammatica dei maestri francesi. Il risultato è un paradosso squisito: un film che sembra un classico ritrovato su una crisi squisitamente contemporanea.

Frances Ha è il ritratto di una goffaggine elevata ad arte, un'ode alla disfunzionalità come forma provvisoria di esistenza. Frances, interpretata da una Greta Gerwig che fonde il suo corpo e la sua anima con il personaggio in una simbiosi che ricorda le grandi collaborazioni Cassavetes/Rowlands, non è semplicemente una ballerina che non sa ballare abbastanza bene. È un'idea di sé che non riesce a concretizzarsi. Vive in uno stato di "quasi": quasi una ballerina professionista, quasi un'adulta autonoma, quasi la coinquilina perfetta per la sua migliore amica Sophie, con la quale condivide un legame che trascende l'amicizia per diventare una sorta di simbiosi platonica, totalizzante e, infine, soffocante. "Siamo la stessa persona con capelli diversi", dice Frances, una frase che è al contempo una dichiarazione d'amore e una diagnosi. La loro separazione, innescata dalla decisione di Sophie di trasferirsi in un appartamento migliore, è il vero cataclisma del film, un terremoto emotivo che lascia Frances in una diaspora sentimentale e logistica, costretta a un nomadismo picaresco tra i divani e le stanze degli ospiti di una Brooklyn popolata da artisti più affermati o semplicemente più ricchi di lei.

Il bianco e nero scelto da Baumbach non è un vezzo nostalgico. È una scelta estetica e filosofica. Spoglia New York del suo caos cromatico e la astrae, trasformandola in un palcoscenico esistenziale, un labirinto di linee e ombre che rispecchia la confusione interiore della protagonista. La fotografia di Sam Levy conferisce una grazia da cinema d'essai alle situazioni più umilianti: la corsa disperata di Frances a un bancomat che non eroga contanti, i suoi tentativi imbarazzanti di socializzare a una cena pretenziosa, la sua impulsiva e disastrosa gita di un weekend a Parigi. Questo viaggio, in particolare, è una sublime gag truffautiana. Mentre l'Antoine Doinel de I 400 colpi correva verso il mare per trovare una forma di liberazione, Frances vola verso la culla della Nouvelle Vague solo per sperimentare il jet lag, la solitudine e l'incapacità di contattare l'amica che doveva ospitarla. È un anti-viaggio, un pellegrinaggio cinematografico che si conclude con un nulla di fatto, sottolineando il divario tra l'ideale romantico (Parigi, il cinema, l'arte) e la prosaica, spesso deludente, realtà.

Il film si inserisce in un contesto socio-culturale preciso: l'America post-crisi del 2008, dove le promesse della "classe creativa" si sono infrante contro il muro della precarietà economica. Frances appartiene a quella generazione a cui era stato detto di "seguire i propri sogni", per poi scoprire che i sogni non pagano l'affitto a New York. La sua povertà non è quella bohémien e romantica de La Bohème; è una povertà fatta di micro-umiliazioni, di calcoli costanti, di un'ansia pervasiva che si maschera di nonchalance. In una delle scene più rivelatrici, durante una cena, Frances tiene un monologo appassionato e meravigliosamente articolato su ciò che desidera in una relazione: un amore segreto, uno sguardo scambiato dall'altra parte di una stanza affollata, una connessione profonda e inespressa. È un momento di pura bellezza letteraria, quasi fitzgeraldiana nella sua malinconia romantica. Ma subito dopo, quando le viene chiesto cosa fa, risponde con una serie di esitazioni e autodefinizioni vaghe che ne smascherano tutta la fragilità. È brillante nel descrivere i suoi desideri, ma incapace di definire la sua realtà. Questa dissonanza è il cuore pulsante del film.

La sceneggiatura, co-scritta da Baumbach e Gerwig, è un miracolo di naturalismo e arguzia. Cattura il modo in cui i ventenni istruiti e iper-verbali parlano davvero: un flusso di citazioni, autoanalisi ironiche, confessioni improvvise e goffi tentativi di apparire più sicuri di quanto non siano. È l'eredità del mumblecore, certo, ma qui il genere viene elevato, strutturato e dotato di una coscienza cinematografica che lo trascende. Se i film di Woody Allen rappresentavano la nevrosi intellettuale dei baby boomer, Frances Ha è il manifesto della fluttuante ansia dei millennial, una generazione sospesa tra le infinite possibilità promesse dal mondo digitale e le limitatissime opportunità offerte da quello reale.

Il film è anche una profonda meditazione sull'amicizia femminile come relazione fondante della prima età adulta. Il legame tra Frances e Sophie è ritratto con una complessità e un'intensità raramente viste al cinema, eclissando qualsiasi interesse romantico maschile, che rimane sempre periferico, accessorio. La loro riconciliazione finale non è un lieto fine convenzionale, ma un riallineamento più maturo, un'accettazione che il loro rapporto può e deve evolversi per sopravvivere. È un amore che impara a fare spazio, a non essere più totalizzante.

L'epifania di Frances non arriva sul palcoscenico, sotto i riflettori. Arriva dietro le quinte. Accettando di non essere una grande danzatrice, scopre di essere una brava coreografa. È un compromesso, ma non una sconfitta. È la dolorosa ma necessaria transizione dall'ego dell'artista all'artigianato dell'arte. La sua vittoria non è diventare una star, ma trovare un lavoro che ama, permettersi un piccolo appartamento e, soprattutto, definire se stessa non in relazione a qualcun altro (Sophie), ma in relazione al proprio spazio nel mondo. La gag finale, sublime nella sua semplicità meta-testuale, sigilla questo percorso. Il suo nome completo, "Frances Halladay", è troppo lungo per l'etichetta della cassetta delle lettere. Piegando il foglietto, ciò che rimane visibile è "Frances Ha". Un'abbreviazione, un'imperfezione, un suono a metà tra una risata e un'esitazione. È la sintesi perfetta di un'identità trovata non nella perfezione, ma nell'accettazione gioiosa di un sé incompleto e meravigliosamente "quasi". E in quel "quasi", Baumbach e Gerwig trovano una verità universale, struggente e, in definitiva, piena di grazia.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...